La busta paga delle lavoratrici dipendenti è inferiore di circa il 20-25% rispetto a quella dei colleghi uomini e la forbice sembra essersi inesorabilmente bloccata a partire dalla seconda metà degli anni ottanta. Sono questi i risultati di una nuova ricerca sulla disparità salariale di genere elaborata da Iter per il Ministero del Lavoro-Comitato nazionale di parità e pari opportunità. Lo studio, che è stato presentato a Roma il 30 marzo scorso al Cnel e sarà pubblicato a fine maggio, va ben oltre la scoperta dell’acqua calda. Mettendo a confronto tutti i dati economici disponibili sul fenomeno, consente di leggere le trasformazioni del mercato del lavoro e della contrattazione in una prospettiva di genere. La seconda parte tenta poi, attraverso un’analisi sociologica su un campione di 24 lavoratrici, di trovare risposte – che l’analisi economica non fornisce – alla costante distanza salariale.
Per cominciare il panorama va osservato dall’alto, cioè dall’insieme dei percettori di reddito, così come emergono dalle statistiche del ministero delle finanze, per scendere poi al dettaglio del lavoro dipendente. Le serie storiche tra il 1982 e il 1994 (ultimi dati disponibili) ci dicono che la presenza delle donne tra i percettori di reddito è decisamente aumentata, dal 39% nel 1982 al 44% nel 1994. Ma il loro reddito ha perso terreno rispetto a quello maschile: fatto 100 il reddito medio lordo dichiarato dai contribuenti, il valore per le contribuenti eraa del 70,4% nel 1982 per scendere al 63,4% nel 1994.
La fotografia finale del 1994 presenta alcuni elementi interessanti, anzitutto il fatto che la maggiore distanza tra donne e uomini si ha tra le categorie più ricche: tra i possessori di reddito da capitale, che dichiarano mediamente 121 milioni lordi, fatto 100 il reddito medio degli uomini, quello delle donne è 40,3. Tra i professionisti che incassano oltre 66 milioni lordi l’anno, il divario è 52,3 contro 100. In quest’ultimo caso sarebbe interessante scavare e disaggregare di più. Tra i professionisti vi sono infatti gli avvocati e gli architetti di grido – e qui ci piacerebbe sapere quanto le signore guadagnano meno dei colleghi e perché – ma anche le consulenze parasubordinate e le collaborazioni coordinate e continuative, in rapida espansione.
Ma lasciamo da parte queste curiosità per concentrarci sull’allargamento della forbice di reddito tra il 1982 e il 1994. I fattori che determinano l’allargamento sono essenzialmente l’aumento delle lavoratrici dipendenti e l’aumento delle pensionate, cioè la femminilizzazione delle due maggiori categorie di contribuenti. Nel periodo considerato in particolare si è avuto un incremento netto di circa seicentomila donne nel lavoro dipendente, con una fuoriuscita di uomini di pari entità. Perché questo massiccio ingresso di donne nel mondo del lavoro dipendente ha provocato un aumento della forbice di reddito? Perché nel frattempo i lavoratori dipendenti sono arretrati sul piano retributivo, dicono gli autori della ricerca. In altre parole le donne sono entrate nella schiera dei dipendenti proprio negli anni nei quali il reddito di questi subiva una battuta d’arresto e gli uomini, potendo, si spostavano verso altri settori. Valgano i dati: se nel 1982 un dipendente maschio percepiva in media 14 punti percentuali in più rispetto alla media di tutti i contribuenti maschi, nel 1994 il vantaggio del dipendente si era ridotto a 6 punti.
Ed eccoci dunque alla fotografia dei soli lavoratori dipendenti. Secondo i ricercatori di Iter il confronto tra i dati disponibili (Ministero delle Finanze, Banca d’Italia e una fonte comunitaria “estinta” nel 1985 sulle retribuzioni nell’industria) indicano che lo svantaggio salariale delle dipendenti – a differenza di quanto avveniva nell’universo generale dei contribuenti – è diminuito fino all’inizio degli anni ottanta, per fossilizzarsi poi su una percentuale del 20-25% per il resto del ventennio. Due cose avvengono dalla metà degli anni ottanta. Il mercato del lavoro va incontro alla deregolamentazione, il ventaglio salariale si apre, mettendo fine a quella fase di egualitarismo che aveva caratterizzato gli anni settanta con la contrattazione centralizzata. La scala mobile perde peso: con il decreto del 1983 e la successiva sconfitta referendaria del 1984 viene abolito il punto unico di contingenza che dall’accordo del 1975 assicurava aumenti uguali per tutti, contribuendo ad abbattere i differenziali salariali. Il sistema andrà definitivamente in pensione nel 1993 con l’accordo del 23 luglio che introduce aumenti in base all’inflazione programmata, in percentuale sulla retribuzione, allargando così la distanza tra buste paga diverse.
Riletti gli anni ottanta dal punto di vista differente dei salari femminili, e spiegato quindi l’irrigidimento della forbice, vorremo finalmente sapere da cosa dipende la forbice. Un’accurata analisi statistica dimostra che le differenze in orario e durata annuale del lavoro, età ed anzianità di servizio, esperienza lavorativa e area di residenza, e persino il livello di istruzione possono al massimo spiegare qualche punto percentuale del divario, e addirittura, per gli anni più recenti, dovrebbero tradursi in una maggiore retribuzione per le donne. Resta dunque un robusto 20% di differenziale salariale dipendente solo dalla variabile di genere.
L’analisi economica si ferma qui. Non è in grado di dirci quanto di questo 20% è ancora discriminazione diretta, fino al salario inferiore a parità di mansione; quanto è discriminazione indiretta, con caduta dei livelli salariali nei settori a maggiore presenza femminile e con il famoso “soffitto di cristallo” che ferma la carriera delle donne; quanto infine è attribuibile a un approccio differente di alcune verso il mondo del lavoro, al rifiuto nei confronti di un’omologazione ai modelli maschili che prevede la full immersion nel lavoro e l’abbattimento dei tempi per sé e per gli altri. Ai quesiti cerca di rispondere l’analisi sociologica a campione che, come era da prevedere, si imbatte in un mix di tutto questo. L’impiegata di banca Marilù spiega come i colleghi di pari grado guadagnino di più perché spesso vengono mandati in missione presso le altre filiali -cogliendo così il punto chiave dell’accesso delle lavoratrici alla quota di salario variabile, sempre più pesante nella busta paga; la giovane Carolina rinuncia a una redditizia occupazione nel settore finanziario per non lavorare più tutte le sere fino a mezzanotte a una farraginosa produzione di bilanci; e opta per un’agenzia di comunicazione dove si respira un clima meno rigido e i ritmi sono più umani. Altre intervistate scelgono un lavoro opaco e poco retribuito perché puntano tutto sulla famiglia, altre ancora fanno carriera ma “lavorando come un uomo”.
Dalla ricerca deriva un pacato incoraggiamento a giocare la sfida del 20% tutta sul piano culturale e sociale, con il riconoscimento di un maggiore valore anche economico ai settori fortemente femminilizzati (si pensi alla retribuzione degli insegnanti o degli infermieri generici) e in generale al lavoro riproduttivo, e con la valorizzazione di modelli di organizzazione del lavoro che consentano a tutte e a tutti di scegliere tempi di lavoro e di vita senza ritorsioni salariali.
E’ doveroso dedicare un’ultima istantanea alle pensionate. In rapido aumento per la nota longevità femminile, stanno però perdendo reddito. La pensione media delle donne (Inps) che era pari al 60% di quella degli uomini nel 1996 è scesa a meno del 58% nel 2000. La riforma delle pensioni del 1995 sul lungo periodo intendeva favorire le donne con il sistema contributivo che attenua le differenze tra carriere brillanti e carriere piatte; inoltre introduceva vantaggi previdenziali per i periodi dedicati alla cura dei figli. Ma nell’immediato ha concretamente ridotto le pensioni delle donne: ha tagliato infatti l’integrazione al minimo e le pensioni di reversibilità, due istituti che avevano rappresentato, anche se forse impropriamente, una remunerazione differita del doppio lavoro in casa e fuori casa.