Il Congresso Usa è finanche intervenuto per tentare di tamponare la deriva, con una legge che aiuti a frenare i compensi dei massimi dirigenti di un’ azienda. Se in Italia ha fatto scalpore la stima che attribuisce ai top manager una remunerazione 160 volte più alta di quella di un operaio, infatti, negli Stati Uniti il divario è un abisso: in media, fra la paga del Ceo (l’ equivalente americano dell’ amministratore delegato) e quella di un normale dipendente, il rapporto è di 411 a 1. E continua a crescere. Eppure, non è questa la storia che conta nell’ ultima incarnazione del capitalismo globale. In fondo, per quanto riccamente remunerati, anche capi azienda come Marchionne alla Fiat o Rex Tillerson alla Exxon sono pur sempre forza lavoro, che a fine mese passa a ritirare la busta paga. La storia vera, almeno per i paesi avanzati, dell’ ultimo quarto di secolo di globalizzazione marciante, è che, nell’ eterno braccio di ferro fra capitale e lavoro, fra profitti e salari, il capitale ha continuato inesorabilmente a mangiare la fetta di torta che il lavoro si era ritagliato nella ricchezza nazionale. E ad una velocità impressionante. I dati sono contenuti nell’ ultimo World Economic Outlook di un’ organizzazione non particolarmente propensa a teorizzazioni sovversive, come il Fondo monetario internazionale. Negli ultimi 25 anni, nei paesi avanzati – l’ Occidente del mondo, più il Giappone – il combinato disposto di globalizzazione e progresso tecnologico ha comportato una riduzione di circa sette punti della quota del lavoro sulla ricchezza nazionale. Nel 1980, il lavoro (autonomi inclusi) si ritagliava una fetta pari al 68,34% del prodotto interno lordo. Nel 2005, questa quota era scesa al 61,52%. Un economista come Olivier Blanchard, del Mit di Boston, sostiene che, di fatto, i lavoratori hanno perduto quanto avevano guadagnato nel dopoguerra. La metodologia usata dai ricercatori del Fmi impedisce di risalire alle statistiche nazionali. Ma la disaggregazione fornita dall’ Outlook sembra dare ragione a Blanchard. Nei paesi anglosassoni, la perdita dei lavoratori non è superiore a tre-quattro punti di Pil. Il grosso della caduta è nell’ Europa continentale, il cuore del welfare state keynesian-socialdemocratico del dopoguerra: qui, la quota del Pil che finisce nelle tasche dei lavoratori è crollata, in soli 25 anni, di dieci punti. Nel 1980, i lavoratori europei si ritrovavano con quasi tre quarti del Pil, il 73,09%. Oggi, con meno di due terzi: il 63,62. Cosa è successo in meno di trent’ anni? Il tramonto dei sindacati, secondo molti. Secondo Jelle Visser, dell’ Università di Amsterdam, il tasso di sindacalizzazione nell’ Unione europea è sceso dal 40 per cento del 1980 a poco più del 25%. In Italia, nel 1980 era iscritto al sindacato un lavoratore su due. Oggi, uno su tre. Ma la crisi del sindacato è, probabilmente, più un sintomo che una causa. L’ Fmi si concentra su fattori meno politici e più strutturali. Il primo è la globalizzazione del mondo del lavoro. Secondo i calcoli di Richard Freeman, di Harvard, l’ ascesa di Cina, India e Russia ha aggiunto circa 1,5 miliardi di lavoratori all’ economia globale, raddoppiando la quantità precedente. La stima del Fmi è più sofisticata: considerando solo gli addetti di aziende coinvolte nei flussi di import export, la forza lavoro globale risulta quadruplicata nel giro di vent’ anni. Se l’ offerta di qualcosa aumenta, dicono le leggi dell’ economia, il suo prezzo diminuisce. Il meccanismo con cui questo è avvenuto, secondo l’ Fmi, è assai poco l’ immigrazione (in media il 5 per cento dei lavoratori nei paesi avanzati) o l’ offshoring (la produzione all’ estero di beni e servizi che conta per il 5 per cento, in media, del Pil), ma soprattutto il commercio. Tuttavia, secondo l’ Outlook, la forza principale che ha alimentato l’ ascesa del capitale rispetto al lavoro è il progresso tecnologico. La controprova è nel fatto che, a perdere quote di Pil sono soprattutto i lavoratori dei settori in cui è prevalente manodopera poco qualificata, come il tessile, mentre i settori in cui sono più numerosi i dipendenti qualificati (biotecnologie, software) hanno, in realtà, guadagnato posizioni. L’ Fmi è, peraltro, attento a sottolineare che non si può parlare di impoverimento dei lavoratori. In termini assoluti, infatti, la retribuzione media dei lavoratori è, in effetti, aumentata. Chi percepisce una busta paga sta meglio di 25 anni fa. Ma il suo peso politico ed economico è diminuito: la sua fetta è più sostanziosa, ma la torta si è allargata molto di più e le nuove fette sono andate ai profitti. Peraltro anche questa sottolineatura del Fmi potrebbe risultare ottimistica. Restringendo l’ ottica agli ultimi anni, un’ altra organizzazione assai poco anticapitalista, come la Morgan Stanley, una delle maggiori banche d’ investimento mondiali, nota che, dal 2001 ad oggi, le retribuzioni reali dei lavoratori, nei maggiori paesi industriali, sono rimaste praticamente ferme. Sfidando un’ altra legge dell’ economia. Di norma, infatti, una maggiore produttività del lavoro si dovrebbe tradurre in salari più alti. E, nell’ ultimo decennio, la produttività del lavoro è cresciuta del 2,8% l’ anno negli Usa, del 2,1% negli ultimi tre anni in Giappone, dell’ 1,7% nell’ ultimo anno e mezzo in Germania. Tutti tassi doppi rispetto agli anni precedenti. Ma, sempre secondo la Morgan Stanley, la quota del lavoro (questa volta dei soli salari) sul Pil nei paesi avanzati è scesa dal 56% del 2001 al 53,7 del 2006. Nella globalizzazione e nel progresso tecnologico sembrano essere in azione, nel redistribuire la ricchezza, forze più potenti di leggi che parevano consolidate dell’ economia. E anche della politica. Ancora la Morgan Stanley nota che, nonostante dieci anni di governo laburista, in Gran Bretagna l’ ineguaglianza dei redditi continua ad aumentare. «Dopo un decennio di crescita economica costante – scrive David Miles, uno degli analisti della banca – in cui la disoccupazione è caduta drasticamente e l’ occupazione è cresciuta in modo significativo e durante il quale il governo ha usato tutte le leve a sua disposizione per cercare di redistribuire il reddito a favore dei meno fortunati, tutto quello che è riuscito ad ottenere è ridurre, ma non annullare, un ulteriore aumento dell’ ineguaglianza. E, come il governo ha raggiunto il limite della sua capacità di manipolare tasse e welfare per redistribuire il reddito, l’ ineguaglianza ha ricominciato a crescere».