Salari italiani fuori dall’Europa

L’impressione c’era. Ma vedersela confermata così, dalla brutalità dei numeri, condita dal linguaggio asettico della statistica spiegata al popolo, beh… fa una certa impressione.
I salari italiani sono i più bassi d’Europa. Punto. Portoghesi a parte, abbiamo toccato il fondo tra i «quindici» che costituiscono l’Europa «vera», quella che serba memoria del «modello sociale europeo». Più indietro ci saranno le new entry, gli affamati dell’Est che giocano tutta la propria competitività su un costo del lavoro ancora più vicino al terzo mondo che non al Vecchio Continente.
Noi siamo i penultimi dei «quartieri alti». Il bello (si fa per dire) è che abbiamo perso posizioni anno dopo anno. Tra il 2000 e il 2006 – spiega il rapporto Eurispes, elaborato sui dati ufficiali Eurostat filtrati dall’Ocse – siamo stati sorpassati in tromba dai nostri cugini mediterranei Spagna e Grecia. Solo nel 2004 il salario medio annuo di un lavoratore italiano dipendente dell’industria o dei servizi (con esclusione dunque dei salariati agricoli e dei dipendenti pubblici) era di 15.597 euro, mentre uno spagnolo intascava 26 euro in meno e un greco arrancava a 12.434. L’anno successivo lo spagnolo ci lasciava a 1.000 euro di distanza, il greco a 430. Nel 2006 la situazione è peggiorata ancora, con l’iberico a veleggiare sui 17.412 euro, il greco che ci guarda dall’alto dei suoi 16.720 e l’italiano che si barcamena con 16.242. Il portoghese piange a 13.136, è vero, ma in due anni ha ridotto il distacco da 7.000 euro a soli 3.000. Si può anche dare tutta la colpa al governo Berlusconi, ma la chiave vera è la subordinazione completa di qualsiasi governo alle pretese di Confindustria, oltre che ai «diktat» provenienti dai diversi organismo sovranazionali (Ue, Fmi, Bamca Mondiale, ecc).
Un crollo simile delle retribuzioni nette arriva in conseguenza di una dinamica salariale arretrante, più che «bloccata». Nel quinquennio considerato, infatti, il salario medio lordo europeo è cresciuto del 18%, mentre in Italia solo del 13,7. Gli ultraliberisti inglesi hanno addirittura impazzato con un +27,8, mentre i già ricchi svedesi si sono accontentati di un +7,7. Vero è che il costo medio per ora lavorata risulta ancora leggermente più alto in Italia (21,3) rispetto a Spagna (14,7) e Grecia (13,3); ma è colpa soltanto del «cuneo fiscale», più alto da noi.
Insomma: a livello di salario lordo siamo quart’ultimi, sul netto (quello che effettivamente ci viene dato in busta paga) siamo in fondo (col Portogallo ormai in scia). Le cose peggiorano considerando l’evoluzione del tasso di inflazione. Fatto uguale a 100 sia il valore del salario che quello dei prezzi al consumo nell’anno 2000, infatti, risulta che i salari italiani a dicembre 2006 sono pari a 116,7 mentre i prezzi sono saliti a 120. Oltre tre punti in meno (e stiamo parlando dll’inflazione «ufficiale», non di quella «reale»). Fin troppo facile, a questo punto, capire come abbia agito l’«effetto congiunto» tra erosione del potere d’acquisto e contenuta dinamica salariale.
In una giornata così, suona decisamente surreale – per non dire provocatoria – l’ennesima sortita del commissario europeo all’economia, Joaquin Almunia, che nel suo Rapporto trimestrale sull’eurozona ha invitato l’Italia a «moderare i salari», che nel nostro paese si sarebbero mossi in modo «particolarmente pronunciato». Diciamola così: se Almunia fosse un rappresentante democraticamente eletto di un paese democratico, questo paese non avrebbe che da ingiungergli di restituire il mandato. Immediatamente. Di «ideologi liberisti» che non guardano neppure le proprie cifre, non si sente davvero il bisogno.