L’esecuzione di Saddam Hussein, che viene salutata dal presidente americano George W. Bush come un superbo levarsi della democrazia in Iraq, ci ha portato ancora una volta alla riflessione non solo sulla condotta della guerra nel paese della Mezzaluna fertile, ma anche del ruolo della pena di morte e delle sue conseguenze nell’angusto teatro bellico che si può vedere ogni giorno intorno a Bagdad. “Restate uniti” ha detto l’ex presidente iracheno prima che il nodo scorsoio venisse stretto attorno al suo collo e il suo corpo fosse lasciato penzolare sul patibolo. Sono quasi le sei della mattina in Iraq, le quattro in Italia. Hussein viene condotto con le mani legate dietro la schiena al luogo dove si compirà la giustizia della nuova “democrazia” irachena voluta dall’imperialismo americano.
Il sacrificio che viene offerto alla benevolenza del popolo “liberato” è proprio l’ex dittatore, il sanguinario tiranno che commerciava il petrolio in euro negli ultimi anni e su cui sono state inventate le più grandi menzogne massmediologiche per far crescere un’istintiva volontà di aggressione nei suoi confronti e nei confronti dell’Iraq governato dal partito Baath. Colin Powell e la sua fialetta all’Onu, le armi di distruzione di massa, i falsi collegamenti con Al Qaeda (ricordiamo che Saddam Hussein aveva in profondo disprezzo sia la famiglia Bin Laden che lo sceicco saudita rifugiatosi nella patria dei Talebani). Tutto questo ha condotto ad una guerra che ha saccheggiato l’Iraq delle sue ricchezze materiali, del suo petrolio, che ha permesso a Dick Cheney e alle sua aziende di inserirsi nel tessuto economico di un paese devastato dalle bombe su tutte le città – da Bassora sino a Kirkuk – e seviziato con la brutalità nelle carceri, in città martiri come Falluja dove non è rimasta anima viva dopo i bombardamenti al fosforo bianco.
Saddam Hussein è morto per mano di chi un tempo gli aveva oltretutto fornito quelle armi per combattere contro l’Iran dell’ayatollah Khomeini. Saddam Hussein è morto perchè, pur nella tragedia della sua direzione politica dell’Iraq, molto spesso segnata da lunghe scie di sangue, vendette, ritorsioni e stermini, aveva negli ultimi decenni cercato uno spazio di autonomia proprio per il suo paese in un’area geopolitica marcatamente segnata da una sempre più invasiva presenza degli Stati Uniti: Arabia Saudita, Kuwait, Israele, Turchia. Tutti paesi con una connotazione sodale verso l’impero americano o economica o politica o strategico-militare. La Nato in Turchia, il ruolo importantissimo di Israele nel Medio Oriente e nella questione palestinese, il petrolio saudita e i legami tra la famiglia Bush e la famiglia Bin Laden negli affari classici dei petroldollari, e quella che un tempo era la provincia irachena più a sud, il ricchissimo emirato del Kuwait, separato dalla madrepatria e posto al rango di vassallo dell’occidente opulento e potentemente armato.
Dunque ora l’esecuzione-assassinio di Saddam Hussein, secondo la demagogia del criminale presidente americano, dovrebbe essere una pietra miliare, una data da ricordare come rinascita della nazione irachena, come alba di un nuovo millennio per il Medio Oriente, fulgido esempio di come si trattano i tiranni. Da che pulpito viene la predica… Tiranno scaccia tiranno? L’autocrazia posta in essere da Saddam Hussein durante i decenni del suo governo, aveva comunque permesso uno sviluppo sociale che oggi è stato completamente cancellato. Se, come abbiamo già avuto modo di scrivere su Lanterne rosse, il regime del Baath considerava l’economia un affare di stato e, pertanto, seguiva le linee di una timida costruzione di un fragile stato-sociale che fosse una diga a protezione della popolazione indigente e poverissima, l’intromissione imperialista americana ha spazzato via la gratuità del sistema scolastico, quella del sistema sanitario e ha sostituito tutto questo con una forzosa imposizione dell’economia di mercato che è come un secondo embargo per un Iraq allo stremo delle forze, ma dove la guerra di Bush non è affatto vinta, pur ben dopo tre lunghi anni dopo la dichiarazione dalla portaerei. La vittoria totale americana non c’è stata, ma non c’è neppure stata una vittoria mutilata, parziale, monca. L’Iraq non è sotto il controllo di nessuno, è solamente presidiato dalle truppe a stelle e strisce e da un esercito e una polizia irachene che sono un costante bersaglio della resistenza armata contro le truppe occupanti.
L’esecuzione di Saddam forse accrescerà il sentimento popolare di opposizione alle forze dell’ “esportazione della democrazia”: il governo di Al Maliki è un fantoccio privo di qualsiasi potere decisionale autonomo. Esegue solamente ordini imposti dall’amministrazione Bush e proposti pubblicamente come decisioni dell’esecutivo iperprotetto nella “zona verde” della capitale irachena.
Cappio al collo di Saddam, ma anche cappio al collo di un intero paese che è stanco delle angherie e dei soprusi militari, economici e sociali degli Usa. La cacciata delle truppe straniere e la fine dell’occupazione economica dell’Iraq sono la naturale e giusta conclusione che prima o poi dovrà avere seguito per una vera e propria ricostruzione democratica della terra dei due fiumi. Nessuna truppaglia straniera o non straniera, alla meglio addestrata a mantenere un non ben precisato “ordine pubblico”, potrà fermare le azioni della resistenza che, anche oggi, mentre scriviamo si sono manifestate proprio poche ore dopo la morte dell’ex raìs di Bagdad.
La fine di Saddam è un altro clamoroso errore strategico compiuto dal Pentagono, dalla Cia e dall’Amministrazione Usa nel suo complesso. E non abilita di certo gli Stati Uniti agli occhi del mondo quel cappio grande stretto attorno al collo dell’ex presidente iracheno. E’ un raccapricciante susseguirsi di immagini: la fredda mattina si sente e si vede nel cappotto indossato dal condannato, nel suo pallore che è frutto certamente di una paura ancestrale per la fine, per una fine che forse Saddam non aveva immaginato avvenisse in questo modo, per mano di coloro che un tempo, in guerre passate e diverse, gli avevano venduto armi a spron battuto. I signori della guerra che avevano già il volto di Donald Rumsfeld negli anni ’80 ma che lo consideravano un utile alleato contro l’Iran, e magari in seguito un utile stato-vassallo.
La morte, che stringe al collo quello che al processo si è ancora definito il “presidente dell’Iraq”, viene ancora una volta dalle mani di un potere, di uno Stato. E la sopraffazione della violenza si erge a protezione di una sentenza che molti definiscono viziata non tanto dalle procedure del diritto iracheno (se mai ne esiste uno veramente indipendente dalla volontà di Washington), quanto dalle circostanze in cui si è svolta.
Ma stiamo parlando di una metodologia che è praticata con continuità nella grande repubblica stellata, dove viene data la morte ancora con le scariche elettriche di una sedia fatale, con l’atroce moderno meccanismo delle iniezioni di sostanze paralizzanti il cuore sino all’infarto autoprodotto, con l’asfissiante pratica della camera a gas e, in guerra, con la fucilazione.
Pochi giorni fa un condannato a morte negli Usa, precisamente nello stato della Florida, ha dovuto subire una doppia fase di iniezioni letali poichè non era stata sufficiente la prima. Una tortura indicibile, una evidente mortificazione di tutti i princìpi anche solo liberali proclamati dalla Costituzione delle ex colonie di Sua Maestà britannica. La pena di morte come “pietra miliare”, e la morte di Saddam Hussein come epigrafe su questa pietra su cui si dovrebbe basare la millantata democrazia irachena da esportazione americana.
Che differenza fa, provate a pensarci, per chi ha fatto di Falluja un silenzioso campo di cadaveri dare la morte anche all’emblema scomodo della guerra, a quel Saddam Hussein che armi di sterminio di massa non ne aveva, che non possedeva neppure un esercito adeguato a combattere per almeno un mese contro i marines nerboruti e fanatizzati dalla propaganda teo-conservatrice della destra bushista? Non fa nessuna differenza. E allora ecco il cappio, ecco il nodo che viene stretto e che terrà sospeso il corpo del dittatore quasi settantenne ormai esanime, lì a penzolare nel vuoto di un patibolo, luogo di nascita della magnificente democrazia capitalistico-coloniale fondata dagli Usa in Iraq.
Uno spettacolo, un barbaro spettacolo, anzi diciamolo proprio: un orrore. Eh sì, dirà qualcuno…: “Ma quanti ne ha uccisi Saddam di uomini in quel modo, quanti ne ha fatti fuori di cittadini curdi?”. Aggiungiamo noi: ha perseguitato anche i comunisti del suo paese. Eppure questo non ci smuove di un millimetro da una valutazione etica, politica e sociale della pena capitale: è, e resta, un atroce metodo punitivo che non ha in nessun caso il sapore della giustizia, ma solo quello grigio e cupo della vendetta, dell’odio e del rancore, della impossibile serenità di valutazione di quanto si sta compiendo alla luce dei fatti contestati.
E, allora, qualcuno potrà anche dire: “Ma Mussolini non è stato fucilato dai partigiani?”. Certo che sì, anche quella è stata una sentenza di morte, una “pena di morte”, ma comminata in un contesto completamente diverso da quello dell’odierno Iraq. Non tanto perchè le condizioni politiche, sociali ed economiche dell’Italia di allora sono irriproducibili oggi nel Medio Oriente, ma perchè quel giudizio era un giudizio di tutto un popolo che si esprimeva attraverso le brigate partigiane e il Comitato di Liberazione Nazionale per l’Alta Italia che aveva tentato – attraverso anche una mediazione della curia di Milano – di ottenere la resa di Mussolini senza condizioni. Del resto Mussolini non era assolutamente in grado di porre condizioni ai partigiani e agli alleati. Il rifiuto di Mussolini alla resa legittimò un ultimo atto di guerra contro ciò che rimaneva del regime fascista, contro il tentativo di una ennesima fuga del duce per sfuggire alla cattura e alla giustizia.
Con la morte di Saddam Hussein se ne vanno anche tutte le informazioni che avremmo potuto avere circa i decenni di governo del Baath, i rapporti con le nazionalità che compongono l’Iraq, quelli internazionali, quelli con le altre nazioni arabe. E’ difficile, anzi è francamente impossibile associarsi alle manifestazioni di giubilo di chi esulta per la morte dell’ex raìs. Per molti motivi. Noi non abbiamo mai pensato che Hussein fosse un filantropo socialista o un cocciuto antimperialista. Ci siamo limitati ad una osservazione delle condizioni di vita degli iracheni, e molti indici di rilevazione statistica, ma prima di tutto l’evidenza dei fatti, ci dicono che oggi l’Iraq, dopo tre anni di guerra guerreggiata, è un’ecatombe, una provincia americana con un governo fantoccio e completamente dipendente dalla volontà degli Usa. Se ieri era l’embargo ad uccidere molti bambini, molte donne e uomini per mancanza di provviste medicinali, oggi sono le bombe americane e inglesi, e a volte anche gli attentati di singoli kamikaze che si fanno saltare in aria in un affollato mercato di povera gente. Mentre la resistenza, scoordinata e priva di un “comitato di liberazione nazionale”, colpisce i centri nevralgici del nuovo potere filo-statunitense: caserme della guardia irachena, posti di blocco, basi militari e postazioni dell’esercito.
Ad oltre 1.500 giorni dalla presa di Bagdad, i morti americani hanno superato quelli delle Torri Gemelle. Siamo quasi a 3.000 caduti americani in Iraq. Eppure Bush cerca un riscatto morale per le truppe, per i cittadini del suo paese, e la forca preparata per Saddam voleva anche servire a rinvigorire una convinzione generale che non pervade neppure più il Congresso americano e anche alcuni ambienti del tempio della guerra: il Pentagono.
Bush perderà questa guerra, e lo sa. Ma intanto il deserto sembra divorare ciò che resta delle città irachene, e pretende di chiamarsi con un nome che con tutto ciò non ha nulla a che fare. Diceva Tacito: “Là dove fanno il deserto, quello chiamano ‘pace'”. Ma il deserto è cosparso di cadaveri, e la terra è piena di buche. L’assassinio di Saddam Hussein, perchè di questo si tratta, non intimidirà chi oggi si batte contro gli occupanti. E ci rafforza nel pensare e nel sentire come la guerra, la pena di morte e la democrazia esportata abbiano un lo stesso comune denominatore: l’imperialismo. La morte di Saddam, oltre all’aura di martirologio con cui viene descritta in queste ore, può divenire un boomerang nelle mani di chi l’ha prodotta.