Sabra e Shatila, il dovere della memoria

Beirut. Questa volta, caro amico, c’è così poco da star allegri che ho lasciato a casa il bassotto Nando e me la vedo da solo. Infatti ti scrivo da un posto del terrore e del terrorismo. No, non New York, ne parlano già tutti, giustamente perché stavolta davvero nulla sarà più come prima. No, è un posto più vicino, ma anche infinitamente più lontano, più vecchio. Eppure, quanto è vicino a New York! Si chiama Sabra e Shatila e se New York e Washington sono, come è stato detto, la guerra portata per la prima volta su suolo statunitense, Sabra e Shatila hanno un altro primato: qui vengono chiamati «la madre di tutti i terrorismi». Ci si arriva viaggiando dal centro di Beirut verso le periferie sud, là dove i signori della guerra, della terra e delle banche, da sempre al potere in Libano, hanno rinchiuso in un’immenso lager di cemento e rifiuti i dannati della terra di questo paese: i poverissimi che hanno lasciato campi e villaggi tra i più fiorenti del Medio Oriente per scampare a trent’anni di missili e bombe israeliane, i palestinesi che, in fuga dal 1948 e persecuzioni successive, qui hanno appeso, su pareti di cartone o lamiera, la chiave della casa di Haifa, di Giaffa, di Tel Aviv, di Gerusalemme. Te ne accorgi quando arrivi. Da un lato della strada, Shatila, un groviglio di superfetazioni cementizie, addossate le une alle altre a guardarsi attraverso vicoletti squarciati da fogne aperte e ingabbiati da micidiali ragnatele scompaginate di fili elettrici. Dall’altro, Sabra, cioè niente, cioè carcasse di automobili, qualche capriata di onduline d’amianto, tendacce lacere e stinte, buchi nei montarozzi di fango o di polvere, a seconda del tempo, pareti di spazzatura e, dentro, esseri umani vivi, ragazzetti inselvatichiti che ti puntano pistole giocattolo, donne silenziose che inciampano per fossi e gobbe portando acqua da chissà dove. Non un filo della luce. Sono i più infelici, da anni attendono di attraversare la strada per infilarsi nelle calcinate neoplasie di fronte. Ma quelle già rigurgitano dei figli dei figli dei figli (siamo alla quarta generazione di profughi dal ’48) e il democratico regime libanese non consente ai 400mila dei campi di mettere un solo mattone, rubinetto, tegola, vetro. Si fa lo stesso, di nascosto, a fatica e rilento, ma rischiando carcere e multe. Tremila morti in poche ore E’ il 16 settembre e qui è arrivata una delegazione internazionale di politici, giornalisti, cittadini, voluta dal collega Stefano Chiarini perché, anche all’ombra della tragedia di New York, proprio all’ombra di quel cataclisma, ci si ricordi, si giudichi, si condanni. Quella che tra il 16 e il 18 settembre del 1982 vide uccidere, decapitare, sventrare, affettare, mutilare 3mila, forse più, profughi palestinesi. Solo donne, bambini e vecchi: per un accordo con le forze di protezione dei campi (bersaglieri, marines, legione straniera) Arafat e tutti i combattenti palestinesi avevano lasciato il Libano. Ma le “forze di protezione” se la filarono all’italiana e Sharon, che era risalito in Libano ammazzando 30mila tra civili e resistenti, ebbe “campi liberi”. Liberi per dirigere bande cristiane di tagliagole, denominate Falange libanese, di notte con le fotoelettriche perché non vi fosse sosta nella carneficina, allo sterminio di tutti. Quando entrammo nei campi il 18 settembre, fu come se percorressimo, dopo l’apocalisse, lo spiazzo davanti alle Torri Gemelle: corpi come un gioco Shanghai su cui fosse arrivata una bomba. Ma anche corpi impiccati alle proprie viscere. I palestinesi e i compagni della sinistra libanese che ne condividevano la sorte nei campi, erano stati macellati uno per uno, prendendoli per i capelli, la camicia, la veste, la pelle e guardandogli negli occhi. Sotto gli occhi di Sharon. Questo è l’anniversario e la delegazione è qui per quattro giorni, per ricordare, per commemorare, per denunciare il padre di tutti i terrorismi. Con manifestazioni, concerti, incontri, dibattiti e per fare soprattutto due cose: sbattere in faccia al mondo e ai responsabili la vergogna di un governo libanese che tratta i sopravvissuti di Sabra e Shatila e di tutti i terrorismi israeliani come morti fastidiosamente viventi: non possono lavorare, negati 76 mestieri, cioè tutti, se li fanno (e i medici li fanno) rischiano anni di prigione; non possono costruire, non possono possedere, non hanno cittadinanza, se escono dal paese non possono tornare, la sanità, i servizi sociali, le municipalizzate di immondizia, luce, acqua e gas li ignorano. Sono le vittime del più feroce terrorismo di Stato a bassa intensità mai messo in atto. A Sabra e Shatila lavorano straordinarie Ong palestinesi. Sopperiscono al tradimento dello Stato e all’abbandono dell’Unrwa, l’agenzia Onu per i profughi, che, boicottata dagli Usa, non ha più soldi per mantenere in piedi il sistema scolastico e quello sanitario. Il responsabile di un centro giovani di Shatila, percorrendo asili nido pieni di disegnini con i colori palestinesi, le bombe, gli F15, la casa perduta, ulivi, e teatrini dove adolescenti provano la “danza della resurrezione” e altri cantano in coro le struggenti canzoni della persecuzione e della lotta, mostra con orgoglio una grande conquista: il collegamento telematico con i fratelli nei territori occupati. Ultimamente vi si sono inseriti anche palestinesi d’Israele, giovani di quel milione di arabi, cittadini di terza classe, incorporati nello stato israeliano, a dimostrazione di un tessuto che si sta infittendo e completando nel segno dell’Intifada. Ci si scambiano notizie, consigli per sopperire alle carenze, ricordi, amicizie, corsi di formazione, si riallacciano antichi legami famigliari rescissi dall’esilio. Salah, un vecchio amico dei tempi della rivoluzione libano-palestinese contro i clan feudali cristiano-sunniti, dirigente del Fplp, ribadisce un concetto che andrebbe diffuso: «Quello che gli abitanti dell’Occidente subiscono negli attentati terroristici non fa che accostarli proprio da popolo a popolo, alle nostre vite, alle nostre sofferenze. E ribadisce che mai sono i popoli a farsi la guerra. Sappiamo cosa hanno provato a New York quando il cielo gli è esploso addosso». Quando conobbi il Libano, nel 1967, era un paese gentile, fiorito, integro, sebbene già allora dalle istituzioni colluse con il malaffare finanziario mondiale, con le mafie, con il riciclaggio. Nella grande piazza centrale di Beirut, il Borj, a cercare le botteghe antiche, i caffè, i venditori d’acqua, i saltimbanchi, le palme e i narghilè, sbatti gli occhi sui colossi di vetro e cemento della più cinica speculazione edilizia mai vista in questa regione. Giorni fa a Pistoia per un dibattito, tra un mordi e fuggi, mi sono aggirato nel duomo medievale. In mezzo a grandi pitture barocche ce n’era una del ’400, forse di Fra Angelico. In questo, marie, apostoli, santi, logge, vasti paesaggi che dilagano sullo sfondo. Un contrappunto tra figure, cose, ambiente, senza nessuna prevaricazione degli uni sugli altri. Nelle altre, un turbinare di grandi corpi, pure di marie e profeti, ma ambiente e natura relegati ai margini, piccoli accenni. Una rivoluzione come dalle larghe inquadrature di un film degli anni ’50 ai poderosi primi piani corporei di Ridley Scott e Oliver Stone. E’ azzardato pensare che quella pittura che poneva l’uomo in un contesto di pari dignità segnava tempi in cui sulla potenza e sulla violenza prevaleva l’armonia e la creatività, mentre l’enfasi antropocentrica di altre epoche correva a fianco di grandi guerre, sterminii, colonizzazioni, il capitalismo nascente? E non ne segue che, smarrito, distrutto nell’ideologia virilistica e superomistica dei vari fascismi passati e presenti, l’equilibrio dell’insieme, la fratellanza e integrazione tra quanto c’è e quanto vive sulla Terra, l’esito non poteva non essere di terrore? Violando il rispetto reciproco, la pari dignità tra tutto quello che articola l’affresco del mondo, anche norme e patti si disintegrano e non resta che la centralità soffocante del più potente, del più violento. Non resta che Sabra e Shatila, un’aggregazione di umanità cacciata, segregata, perseguitata cui non viene lasciato neanche quel briciolo di vita che custodisce la speranza. E’ terrorismo fino in fondo. E Sabra e Shatila stanno in un paese a cui lo “sviluppo” ha cancellato la faccia e, dunque, l’anima. Tutto il dipinto è occupato da una banconota, neanche più essere umani. Tanto da accettare di diventare la discarica dei veleni di mezzo mondo e terra di scorribande di trafficanti e palazzinari. La discarica di mezzo mondo Più discariche che villaggi, più cave che montagne. Fouad Hamad, è un compagno e il temerario, pluridenunciato e pluriminacciato responsabile di Greenpeace, in un paese dove ogni conduttura è stata rifatta in amianto dalla pregiudicata Eternit e dove ancora si possono trovare i fatiscenti fusti tossici delle varie Zenobie e Jolly Rosso italiane. Anche Fouad, sul lungomare dove schiviamo Bmw con bonzi, ceffi e pupe e incrociamo gli ozi forzati delle grandi famiglie proletarie e sottoproletarie di Beirut, con tre, quattro disoccupati a unità, e per unico agio questa passeggiata sul vuoto azzurro dell’attesa, ha la sua visione del terrorismo: «Sono gli Stati Uniti che devono interrogare se stessi per l’orribile cosa che è successa. Si chiama terrorismo un’aggressione che non rispetta nessuna delle norme che gli stati si sono dati per risparmiare a natura e persone conseguenze troppo gravi dei loro conflitti». A proposito di discariche, è una discarica anche la fossa comune, grande mezzo stadio, in cui furono gettate le migliaia di massacrati di Sabra e Shatila. Ora, per non sprofondare di vergogna davanti agli occhi di stranieri con telecamere e taccuini, l’hanno parzialmente ripulita. Vorremmo che diventasse un luogo perenne, una tacca nel calendario del mondo, un sacrario. E vorremmo, come delegazione, che vi sorgesse un momento, di marmo, di verde, o di pensieri, non importa. Con inciso la parola “terrorismo”, che qui si scrive Ariel Sharon.