«Romano, così non duriamo»

INTERVISTA – BERTINOTTI A PRODI

La sfida del Prc. Ai riformisti: «Autosufficienza infantile, senza di noi crolla tutto». Al professore: «Il programma non è un optional. O traduciamo il no a Berlusconi oppure ci troveremo senza popolo»

«Non parlo di un optional. Sto ponendo un problema politico a tutta l’Unione». E per Fausto Bertinotti quel problema si chiama «programma». Non solo nella parte degli «obiettivi illuminanti che ancora mancano», ma prima ancora inteso come processo di «democrazia partecipata». Perché l’idea che l’Unione possa fare a meno della sinistra radicale è «semplicemente infantile». Invece, avverte il segretario di Rifondazione comunista, «puoi vincere elezioni, ma il giorno dopo ti puoi trovare di fronte al rischio di una nuova stagione di sofferenza, lacerato tra le domande reali e la concreta capacità di cambiamento da parte dell’Unione».

Tutti, nel centrosinistra, osservano che il problema più che vincere è «il dopo». In quest’ottica Rifondazione sembra rimasta schiacciata tra gli aneliti di autosufficienza riformisti e una certa timidezza attribuibile al risultato non premiante delle regionali. A proposito di questo stallo dell’Unione, non c’è qualcosa che varrebbe la pena mandare a dire da subito a Romano Prodi?

Vorrei ricordare che l’elemento della democrazia che ho già chiamato in causa per noi è dirimente. E non lo dico per ragioni di bandiera, ma alla luce di ciò che sta accadendo. Sperando di non essere frainteso, oserei dire che il 25 aprile a Milano e il primo maggio sono per certi versi simili al no che c’è in Francia sulla Costituzione europea.

Da quale punto di vista?

Perché sono l’espressione grandiosa di una società di incazzati che non ne possono più dell’ordine costituito. Noi stiamo in Italia, all’indomani del 25 aprile e del primo maggio. Siccome ripartire da sé è sempre una buona misura, uno dovrebbe cercare di capire perché quegli appuntamenti celebrativi sono diventate delle piazze pulsanti. A Milano, in forme diverse, devi tornare al `94 promosso dal manifesto per ricordare qualcosa di paragonabile: allora era la rabbia per ciò che si annunciava con la vittoria di Berlusconi, oggi è la prima manifestazione dopo l’era di Berlusconi. Spero di spiegarmi senza fraintendimenti: non avendo nessuna piattaforma culturale, politica e sociale immediata da mettere alla base della mobilitazione, nella difficoltà quindi di rispondere con un programma, quella piazza ha dato alla Costituzione il carattere di questa piattaforma ancora mancante. Una metapiattaforma, insomma. Il carico di mobilitazione, il modo in cui la Costituzione era concepita in termini alternativi all’era di Berlusconi, rappresenta secondo me una grande espressione di supplenza del programma. E il primo maggio è la conferma. Sia nella mobilitazione confederale in Campania che nel May day e in molte altre. Penso ad esempio a una molto significativa, perché tradizionalissima: quella di Torino, il corteo che passa per via Po e che torna a sfilare tra ali di folla che applaudono. E’ stata una manifestazione di sindacato ma non solo, che aveva certamente nel cuore la crisi Fiat e di una città industriale. E tuttavia anche qui era palese una domanda di cambiamento generale, che però non era in grado di precipitare in una piattaforma vertenziale. Non ancora: né una piattaforma unitaria delle opposizioni politiche né in una piattaforma vertenziale di tutto il movimento sindacale. Anche se, su questo terreno, il ruolo dei metalmeccanici ha riempito il vuoto in maniera positiva.

E quale sarebbe il nesso con il no alla Costituzione europea che c’è in Francia?

Secondo me ciò che è accaduto in Italia è parente prossimo della mobilitazione francese. Saltiamo per un momento il discorso specifico sul movimento. Quello francese è un referendum impegnatissimo, con una partecipazione gigantesca, sempre più sul filo del rasoio. Qualche riflessione va fatta: il 66 per cento degli elettori di sinistra è per il no, il 75 per cento tra gli operai. E tutti gli osservatori, anche quelli impegnati per il sì come Libération e Le monde, riconoscono che la radice di questo no è l’insopportabilità dell’attuale condizione sociale, la ribellione contro il senso di ingiustizia e – se vogliamo dirla in linguaggio direttamente politico – il rigetto delle politiche liberiste. Spero ancora di non essere equivocato: il no francese alla costituzione Europea per me è un fondamento assoluto, non meno della Costituzione italiana e della centralità del lavoro; tutti fondamenti, ma anche tutte supplenze esercitate attraverso un nuovo protagonismo di massa rispetto all’inadeguatezza di una vera e propria piattaforma politica delle sinistre e delle forze progressiste. In Italia, dell’Unione.

Nello specifico dei movimenti, invece, c’è un «protagonismo di massa» anche rispetto a loro?

I movimenti sono stati padre e madre di questo protagonismo di massa. Il movimento no global, quello per la pace, il conflitto sociale hanno tutti svolto un ruolo pervasivo dentro la società. E questo è riuscito in maniera assoluta, da cui non si recede. Ma al punto di maturità in cui hanno portato la domanda di cambiamento, anche loro, se pur diversamente dalla politique politicienne, non sono in grado di costruire quella unificazione dei movimenti che sarebbe necessaria per passare dalla crisi e dalla denuncia politiche neoliberiste alla costruzione di elementi reali di alternativa.

Insomma: i movimenti si sono affermati, l’Unione ha vinto le regionali, ma l’alternativa invece non si delinea. E’ un passaggio delicato anche per il destino di Rifodnazione.

Il carattere invasivo dei movimenti è una potenzialità assoluta, la cui domanda è stata colta e tradotta in vittoria alle regionali da parte dell’Unione. Ma è quello stesso potenziale, con la sua maturità e la sua elevetazza, a mettere effettivamente in luce il nostro drammatico deficit di programma. E per programma intendo qualcosa con la P maiuscola, fatta dell’individuazione di obiettivi e delle forze in grado di sostenerli. Insomma: un’idea di mutamento effettivo dei rapporti sociali.

A costo di scadere nel convenzionale, da Rifondazione ci si aspetta almeno qualche esempio preciso, per non dire delle bandiere irrinunciabili.

La cosa riguarda non noi, ma tutti. Diciamo che vogliamo difendere l’occupazione anche nella grande industria: come si fa? Diciamo che vogliamo mettere fine a una ripartizione del reddito socialmente intollerabile come quella che si è realizzata da `93 a oggi, che ha penalizzato salari e pensioni consentendo un innalzamento della rendita intollerabile: come si fa? Diciamo di aver individuato nella precarietà del lavoro e della società la conseguenza più organica e devastante delle politiche neoliberiste: come si interviene? La mia è una domanda politica, non tecnica. Già sarebbe un buon punto se avessimo una mobilitazione per dire da subito che il nostro obiettivo è abrogare legge 30, la Bossi Fini e la riforma Moratti; per indicare su questa base anche obiettivi comuni da perseguire in tutte le regioni dove siamo al governo in modo – ad esempio – da costruire dei territori deprecarizzati dove non si applica la legge 30. Invece nulla. Ma, quando parlo di «deficit», non intendo semplicemente rilevare che non ci sono idee forza attraverso cui rispondere al popolo del 25 aprile o del primo maggio e della May day con una trama di obiettivi illuminanti: mi riferisco anche al processo di ricostruzione di una pratica politico-programmatica che ne sia capace. Ognuno deve fare la sua parte. Ma o l’Unione come tale diventa il soggetto in cui si organizza questo laboratorio in fieri del programma in questa accezione non tecnica, oppure non è. Questo è il problema che pongo. Quando parlo di un «vuoto di democrazia» non intendo perciò porre questioni di procedura, mi riferisco alle forme concrete attraverso cui compiamo un’operazione politica. Non parlo di un optional. Sto ponendo problema politico a tutta l’Unione. Non possiamo essere reticenti su questo punto: se noi di Rifondazione vogliamo una costruzione unitaria dell’Unione è perché possa essere interlocutrice di tutte queste domande che hanno trovato finora solo supplenze.

Se volete questa costruzione avrete anche un modello da proporre agli altri…

L’unica somiglianza che immagino è quella con l’unità sindacale degli anni settanta. Pensiamo alla differenza tra la Flm e la Fisba, o tra la Flm torinese e certe organizzazioni sindacali del sud d’Italia o del pubblico impiego. Ma cosa dava all’unità il carattere non più della ricerca del compromesso bensì dello spazio sociale e politico – pubblico, mi viene da dire – entro cui organizzare la lotta per il cambiamento? E cosa rendeva possibile questa operazione?

La risposta di Bertinotti?

L’organizzazione della democrazia. Non propongo i consigli dell’Unione, ma un’organizzazione stabile di democrazia partecipata. La sfida di contenuto e quella democratica sono la stessa cosa, non si danno una senza l’altra. Venendo a mancare, invece, il 25 aprile e il primo maggio si esprimo fisicamente nelle piazze con forme di supplenza rispetto alla domanda.

Una supplenza che può ripiegarsi sul solo fianco conservatore, che sicuramente c’è’ tanto nella difesa della Costituzione repubblica che nel no francese a quella europea…

Senza lo sbocco in un processo, per forza c’è il rischio del conservatorismo. Intendiamoci, io ho sempre pensato – passando anche per pecora nera – che senza i no non esista una politica di sinistra: l’idea di saltare la negazione, non lo dico per civetteria marxiana, per me non produce proposte positive. C’è una irriducibilità e un’insostituibilità del no. Ma il punto è: se questo no è cresciuto fino a diventare maturo nel raggiungimento del suo obiettivo, o innesca la marcia della proposta alternativa oppure si espone a gravissimi rischi. Per intenderci, se il no a Berlusconi è cresciuto nelle forme che ciascuno ha più o meno amato fino a diventare di popolo e a vincere, o da questo momento diventa protagonista della costruzione di un’alternativa oppure c’è davvero il rischio che «passata la festa gabbato lo santo»: puoi vincere elezioni, ma il giorno dopo ti puoi trovare di fronte al rischio di una nuova stagione di sofferenza tra quelle domande e la concreta capacità di un cambiamento.

Bertinotti che minaccia un nuovo `98?

Io mi limito ad analizzare un rischio duplice: per i movimenti e per le piazze quello di essere costretti a un ripiegamento conservatore, e per l’Unione quello ancor più grande di separarsi precisamente dalla spinta che l’aveva fatta vincere. Per questo pongo problema costruzione del programma, perciò insisto su democrazia partecipata, non per vezzo. Il primo punto del programma è la democrazia partecipata.

Sarà per questo che in alcuni settori «riformisti» dell’Unione c’è già una tentazione a fare a meno di voi, se non alle elezioni almeno nel prossimo parlamento.

Secondo me no. Vedo le tendenze, ma mi sembrano iperminoritarie. Ragionano ottimizzando il proprio interesse di forze moderate che vogliono ridurre la contesa con Berlusconi a quella sull’alternanza. Ma giudico il pericolo secondario, perché semplicemente è irrealistico fare senza di noi. Nella fase ascendente, cioè fino al maturare della sconfitta elettorale e definitiva di Berlusconi, come si è visto anche nelle recenti regionali, l’Unione è l’unica formula possibile delle forze politiche capace di raccogliere la domanda popolare di cambiamento: non solo quantitativamente ma qualitativamente. Non c’è verso. Lasciamo stare quello che potrei dire sulla Puglia. Stiamo al generale: senza l’Unione quel risultato è impossibile. Non si può fare la sottrazione, perché altrimenti cade tutto l’edifico. Chi la pensa così è infantile, confonde i propri desideri con la realtà.

Ma una volta in parlamento…

Vedo più insidiosa un’idea diversa da quella di fare senza la sinistra radicale. Mi preoccupa l’idea di scegliere – non meno di quanto facciamo noi – l’Unione come vincolo necessario. E di portare dentro l’Unione, attraverso la separazione della politica dalla società che è altrimenti una riedizione dell’autonomia della politica, l’influenza che finisce sempre per prevalere quando il conflitto viene marginalizzato: quella dei poteri forti. Penso a un elemento che poneva Bruno Manghi su Europa . Pressappoco diceva così: abbiamo grande consenso di grandi manager, d’accordo, però forse bisognerebbe interrogarsi su come siamo posizionati nelle aree di sofferenza della società. Diceva sul terreno sociale una cosa che assunta politicamente è molto impegnativa, e che è l’opposto di un percorso neocentrista. Da questo punto di vista, io non vedo il pericolo di una messa fuori dal gioco politico. Vedo invece una più insidiosa operazione neocentrista che non precipita in ipotesi schieramento politico, bensì in una idea di egemonia sull’intero campo dell’Unione.

Anche a partire da questo sono in diversi a sinistra che propongono motivatamente di erigere una frontiera unitaria e perciò più alta. Come si può non ammettere che associandosi al altri aumenta la forza negoziale effettiva?

Perché il problema non è quello di negoziare, ma è quello – stavolta – di reggere la sfida per l’egemonia. Ecco perché. Non si tratta di un braccio di ferro tra presunti riformisti e presunti radicali, bensì di costruire un processo democratico di massa capace di dare un corso prevalente all’Unione e al suo governo. In questo c’è certamente bisogno di una sinistra radicale, ma lo dove essere per impianto di cultura politica, per esperienze e incroci di movimento, e non per assemblaggio di sigle: perché è una sinistra che ha percorso una strada da Genova fino a ora, perché è approdata alla nonviolenza come idea di trasformazione della società, perché ha visto declinarsi il conflitto sociale in certe lotte come quelle che vanno da Scansano a Melfi, perché ha rotto con ogni incrostazione stalinista. E’ per questo che guardo con tanto interesse al convegno promosso a Roma nel prossimo finesettimana dalle riviste (Aprile, Alternative, Carta, Quaderni Labour, Ecoradio, ndr). E’ per questo che guardo con altrettanta attenzione a compagni che nel sindacato e nell’Arci sono collocati sul terreno della sinistra radicale, anche con scelte individuali e tuttavia significative come quelle di Pietro Folena e di Francesco Martone.

Ed è per questo che, a quindici anni di distanza, si assiste a una significativa ripresa di interesse reciproco tra chi allora era collocato su fronti opposti rispetto alla fine del Pci, come chi fu fautore della svolta (Achille Occhetto ma anche Pietro Folena) ritenendo di indirizzarla a sinistra e chi fu invece contrario (da Pietro Ingrao a Bertinotti) sempre in nome di una ricerca critica e non identiaria?

Forse sì. Qui però mi fermo. Perché sono cose che meritano una discussione approfondita e a freddo. Propongo però il titolo: «Cos’è oggi, se come io credo è necessario, l’anticapitalismo?».