Il baricentro dell’economia globale si sposta a oriente, l’India è «una realtà emergente» dell’Asia, a Mumbai (Bombay) vanno e vengono le delegazioni d’affari: e l’Italia deve «giocare la partita là dove si gioca», ha detto ieri il ministro degli esteri Massimo D’Alema. Lo ha detto rivolto a un’audience di imprenditori riuniti alla Farnesina, una conferenza di dirigenti di aziende pubbliche e private italiane che operano in India (si chiama appunto «tavolo India»).
L’Italia vuole dunque rilanciare le relazioni con New Delhi. Non si tratta solo di business, precisa il ministro degli esteri: l’India è «un attore fondamentale negli equilibri regionali». Inoltre «offre un modello funzionante di democrazia laica e di una società multiconfessionale». Non che sia al riparo da fondamentalismi e tensioni intercomunitarie, ma il ministro degli esteri la definisce «un ineguagliato laboratorio di convivenza». Gli storici pilastri delle relazioni italiane sono stati l’Europa e l’America, ha spiegato il sottosegretario Gianni Vernetti, ora «dobbiamo costruire un nuovo pilastro geopolitico e geostrategico in Asia». Le intenzioni sembrano serie.
Certo, bisogna intendersi quando si parla di «potenza emergente». L’India ha 1,1 miliardi di abitanti, ma quando si dice «mercato» si indica una classe media di 300 milioni di persone: pur sempre un mercato di dimensioni considerevoli, quasi un miraggio per le aziende occidentali. I dati pubblicati dal governo indiano a fine maggio dicono che negli ultimi 3 anni la crescita del Pil si è attestata sull’8,1%; è cresciuto almeno del 6% negli ultimi 15 anni, cioè da quando nel 1991 l’allora ministro delle finanze (e ora premier) Manmohan Singh ha avviato la liberalizzazione dell’economia. L’India oggi ha aziende «di classe mondiale» presenti sui mercati stranieri (più di quante ne abbia la Cina, che pure ha un’economia più forte). Ha una celebrata industria elettronica e informatica, è la «capitale» dell’out-sourcing (la delocalizzazione di servizi elettronici, dalla produzione di software ai banalissimi call-center: il vantaggio di avere manodopera specializzata di ottimo livello e anglofona).
Tutto questo però può dare un’immagine parziale. Intanto perché restano gli 800 milioni di indiani privi di un potere d’acquisto (non sono «consumatori» ma sono persone che votano, partecipano alla vita politica e licenziano governi, e questo dà ragione a chi definisce l’India «la più popolosa democrazia al mondo»). Così, perfino un settimanale «business-oriented» come The Economist un paio di settimane fa si chiedeva se il successo del business indiano renderà più benestante l’intera India. E poi perché restano forti debolezze: non solo le infrastrutture (strade, porti, aereoporti, che infatti sono guardati dall’industria occidentale e anche italiana come settori in cui entrare) ma l’istruzione (ci sono milioni di indiani con altissime specializzazioni ma milioni di bambini che non riescono ad andare a scuola). L’economia indiana resta essenzialmente agricola; l’India ha un sesto della popolazione mondiale ma conta per l’1,3% dell’export mondiale di beni e servizi e attira lo 0,8% del flusso mondiale di investimenti diretti stranieri.
Ai primi di luglio il sottosegretario Vernetti andrà a New Delhi per «riannodare la cooperazione economica, culturale, scientifica» (un modo per «presentare» il nuovo governo di Roma). L’Italia oggi è il quarto partner commerciale europeo dell’India, ben dopo il Regno unito, la Germania e il Belgio.
Tra le imprese italiane in India ci sono grandi aziende come la Fiat (da vent’anni: 11 stabilimenti, 12mila occupati di cui 4.000 diretti e gli altri in joint ventures), che però subisce una concorrenza formidabile e ora spera di riguadagnare quote di mercato grazie alla collaborazione con il gruppo Tata, uno dei maggiori gruppi industriali indiani. O come la Piaggio (è là da 50 anni, la Vespa è stata un fenomeno di costume in India quanto in Italia…). Ci sono le imprese di Finmeccanica, con l’aeronautica (Atr ha appena avuto l’ordinazione per 50 aerei e spera che ne seguano altre), l’aerospaziale, l’impiantistica, Fincantieri.
C’è l’Eni che ha vinto appalti per esplorazioni petrolifere. Poi ci sono le piccole e medie imprese di settori come le macchine utensili o la lavorazione dei pellami e delle pietre preziose, tradizionali punti di forza italici. Espandere il business italiano? I potenziali settori promettenti sono le infrastrutture (trasporti, per esempio), l’agroalimentare, l’energia. Così, nuove delegazioni d’affari si preparano a sbarcare a Mumbai.