Un cartello più di altri restituisce il dramma di Gaza. Dice che oggi i palestinesi sono “vittime delle vittime” e chi lo porta al collo sa di sopportare una sofferenza, antica e attualissima, molto più grande di lui e dei centomila che stanno per sfilare dal luogo simbolo della multietnicità di una metropoli come Roma, Piazza Vittorio, allo spazio, altrettanto simbolico, che che vide l’inizio della resistenza romana l’8 settembre del ’43, Porta S.Paolo, dove risuonerà, dopo il tramonto, la voce registrata di Vittorio Arrigoni, il pacifista italiano testimone del massacro di civili che Tel Aviv ha ribattezzato Piombo fuso. Lungo tutto il percorso, Choukri dell’Udap, sinistra laica arabo-palestinese, non ha smesso un attimo di denunciare la complicità dei governi occidentali e il silenzio delle Ong.
Prima dello striscione d’apertura – “Fermiamo il massacro dei palestinesi”, tre donne rappresentano altrettante generazioni di donne cresciute sotto l’incubo di una guerra d’occupazione. Vengono dalla diaspora palestinese, aprono la manifestazione con altri quattro bambini vivi, e con un bambolotto insanguinato di vernice. All’ora stabilita, all’altezza del Colosseo, le bandiere palestinesi serviranno da tappeto per la preghiera musulmana. Più avanti, un minuto di silenzio avvolgerà il palazzo della Fao, di fronte al Circo Massimo. Il gioco dei numeri vede immutate le parti: la questura a dividere per dieci la cifra, forse ritoccata, gridata dai promotori entusiasti del risultato. «Roma ha detto che la popolazione è contro il massacro di Gaza. Il crimine è di chiamarla guerra», spiega all’arrivo Sergio Cararo del Forum Palestina.
Dai territori, la mobilitazione s’è finalmente trasferita a Roma, con un bel po’ di ritardo rispetto a quanto accaduto in altre capitali europee. «E nei territori dovrà tornare – commenta ai microfoni di Liberazione, Claudio Grassi della segreteria di Rifondazione comunista – per estendere il boicottaggio dei prodotti israeliani. In una fase come questa, è necessario ricorrere a questa forma di lotta non violenta.
L’ossatura del corteo è data dalle reti di solidarietà col popolo palestinese e dalle comunità arabe e islamiche di tutta Italia. Il gioco dei cartelli vede citatissimi dalle agenzie e dai siti quelli a favore di Santoro colpito dagli strali bipartisan per aver mostrato le sofferenze dei palestinesi. Qualcuno scova due (2) svastiche sovrapposte alla Stella di David e Repubblica riesce a farci un titolo. In realtà tutto fila liscio, senza pagliacciate di alcun tipo. Per trovare un po’ di tensione bisognava stare al Ghetto dove, di ritorno dalla manifestazione, un maestro cobas di Cagliari, Nicola Giua, s’è trovato circondato e spintonato da decine di ragazzi della comunità fermati da quelli che parevano i capi. La sua colpa: indossare una kefia. Poco prima, nel cuore della comunità romana, s’era tenuto un presidio anti-Santoro.
Più degli slogan, a caratterizzare la partecipazione massiccia dei migranti erano le foto che ciascuno mostrava. Le foto del massacro in corso nella Striscia. A promuovere la partecipazione sono state spesso le comunità che si raccolgono intorno alle moschee. E’ lì che avviene l’organizzazione della solidarietà concreta, racconta Ibrahim Djallo, senegalese quarantaduenne, da 18 a Brescia e da 10 in Cgil. Lui è a Roma, il suo sindacato ad Assisi e a lui dispiace. Ma dalla cittadella umbra arrivano buone notizie. Non c’era molta gente ma i contenuti erano buoni, dice Raffaella Bolini dell’Arci una volta giunta nello spezzone di Arci, Fiom, Un Ponte per, Rete 28 Aprile, Donne in nero e altri, che vuole rappresentare un ponte con l’altra manifestazione. C’è Alessandra Mecozzi della Fiom che, di fronte alla grandezza e all’articolazione, dice che sì, che può essere una premessa per la ripresa del movimento. Che ci sia bisogno di politica lo dicono tanto in questo spezzone quanto l’ambasciatore palestinese, Sabri Ateyhe: gli aiuti umanitari non siano la foglia di fico per coprire l’assenza di un orizzonte politico. «La relazione con le comunità migranti – spiega Raffaella Bolini – sarà cruciale per tirare la questione fuori dalla gabbia della geopolitica». Se si domanda a un pacifista israeliano o a un pacifista palestinese cosa potremmo fare qui, si sente rispondere che Venezuela e Brasile hanno dato l’esempio rompendo le relazioni diplomatiche con Israele. A parlare, anche lui appena arrivato da Assisi, Iohav Goldring, giovane consigliere comunale a Tel Aviv per il Partito comunista israeliano. Accanto a lui, Fabio Amato, responsabile esteri del Prc: «Servono atti concreti, anche le sanzioni, per ripristinare la legalità».
«Gli immigrati sentono moltissimo questa guerra – conferma Andrea Alzetta, consigliere in Campidoglio per l’Arcobaleno – e il gesto di Chavez ha saldato le comunità arabe con quelle sudamericane«. Il corteo continua a dipanarsi. Ovunque tracce della presenza dei sindacati di base e dei partiti della sinistra radicale – da Rifondazione a Sinistra critica, dal Pdci alla Rete dei comunisti – con consistenti segnali di vita dell’Onda che è arrivata in corteo dalla Sapienza all’inizio di questo corteo. Ovunque le foto della «banalità del male di Piombo fuso». Due ore dopo la coda del corteo ancora non mette piede fuori dal luogo dell’appuntamento. Gli spezzoni sono tutti mescolati, comunità cristiane di base con giovani musulmani, lesbiche e femministe con l’Ucoi. «E’ una risposta politica alle ipocrisie di questi giorni», commenta Giovanni Russo Spena del Prc. E ora? Il Patto contro la guerra, che ha tenuto un incontro nazionale prima della manifestazione, suggerisce la costruzione di comitati locali che allarghino l’adesione – così spiega la romana Cristina Tuteri – alla scadenza di Strasburgo lanciata dal Fse contro la celebrazione dei 60 anni della Nato nella location dell’Europarlamento.