Nel 1978, in Cina, dopo aver sconfitto la «banda dei quattro», Den Tsiao Ping propone alcune riforme economiche che, da lì a pochi anni, cambiano il paese dove vive un quinto della popolazione mondiale. Una manciata di mesi dopo, un certo Paul Volcker si installa, come direttore, alla Federal Reverse e si dà come obiettivo la lotta senza quartiere all’inflazione. Siamo così arrivati al 1979 e Margaret Thatcher espone il suo programma politico come primo ministro: anche per lei la lotta all’inflazione è una priorità, a cui aggiunge però una preliminare e strategica riduzione dell’influenza dei sindacati per e rilanciare il Made in England. Da lì a poco la Casa Bianca cambia inquilino: sfrattato il timido Jimmy Carter, prende possesso della camera ovale Ronald Reagan, che dichiara subito di fare suo il programma monetarista di Volcker.
L’ossessione del consenso
Sono quattro episodi espressioni di contingenze nazionali, ma che possono essere considerati «articolazioni» di un unico cambiamento che coinvolge l’intero pianeta. È quanto fa lo studioso marxista americano David Harvey, che li considera gli «eventi» che attestano la vittoria di una concezione della società, della libertà, dell’economia che è solito chiamare «neoliberista». L’antropologo statunitense è però consapevole dell’arbitrarietà della scelta compiuta per fissare l’avvio del neoliberismo a livello mondiale. D’altronde nel suo libro Breve storia del neoliberismo (Il Saggiatore, pp. 283, euro 22) dedica non poche pagine al fatto che il Cile di Pinochet sia stato un laboratorio dove sperimentare le tesi neoliberiste ben prima dell’arrivo di Reagan alla Casa Bianca.
Le date scelte vanno considerate come una convenzione tesa a indicare che il neoliberismo è un fenomeno mondiale. Definito il carattere arbitrario della scelta, David Harvey aggiunge che il neoliberismo è un processo che ha la sua genesi nei centri studi fioriti, seppur in sordina, come funghi negli anni Cinquanta e Sessanta grazie al finanziamento di miliardari eccentrici, ma reazionari, di corporation di tutto rispetto, di magnati dell’informazione. Centri studi che producono molti testi non sempre di qualità, ma che puntano a conquistare l’egemonia nelle università e in quella «fabbrica del consenso » che sono i mass-media. Ci riusciranno molto anni dopo, ma nel frattempo hanno ben arato il terreno per il successo delle politiche economiche appunto neoliberiste.
Una formazione di classe
E tuttavia il neoliberismo non è un fenomeno omogeneo. Presenta ripetizioni – l’avversione vero i sindacati, il monetarismo come ricetta economica, una sfrenata passione per la deregulation -, ma anche differenze, come attesta la diversità tra la via inglese e quella statunitense, tra quella svedese e quella francese, tra quella giapponese e quella cinese. Simile è però anche l’attenzione data al «fattore» consenso. Da qui la centralità dell’università e dei mass-media nella formazione di un’opinione pubblica favorevole alla rivoluzione, meglio alla controrivoluzione neoliberista. Differente è invece il ribaltamento in senso liberista della critica verso il welfare state maturata dopo il Sessantotto. E se alla Sorbona di Parigi, alla Freie Universität di Berlino o a Berkeley il welfare state veniva visto come uno strumento in mano del capitale per prevenire una possibile trasformazione radicale della società, i think thank neoliberisti sottolineano quel desiderio di libertà che covava sotto le ceneri e che aveva la sua camicia di forza proprio nei criteri solidaristici dei diritti sociali di cittadinanza. Insomma, l’insieme dell’ordine del discorso di critica alla società di massa viene ribaltato di segno per legittimare quella che Harvey chiama la «formazione di un potere di classe» nel capitalismo. Diverso è invece i casi nel Sud del mondo. In questo caso, il neoliberismo è la risposta al fallimento di esperienze autoctone di sviluppo economico, come si può leggere nell’avvincente capitolo dedicato alla Cina e all’India.
David Harvey considera dunque il neoliberismo non tanto e solo come l’effetto di una «rivoluzione passiva», ma come un processo che vede deviazioni sulla rotta, correzioni del senso di marcia e che ha come protagonista lo stato e la banca centrale. La sua Breve storia del neoliberismo si colloca, indipendentemente dalla volontà dell’autore, nel solco tracciato oltre venti anni prima dal seminario di Michael Foucalt sulla nascita della biopolitica, quando il filosofo francese mette a fuoco le differenza tra il neoliberismo e il vecchio adagio del laissez-faire liberale.
L’interventismo liberista
Differenze che riguardano il ruolo dello stato e il governo della realtà sociale. Per i liberali ottocenteschi lo stato doveva astenersi dall’intervenire nella vita economica e non varcare la soglia delle mura domestiche. I neoliberisti contemporanei, al contrario, sono molto interventisti. In economia creano le condizioni per l’affermare la proprietà privata in quanto principio regolatore della società, promuovendo le privatizzazioni non solo delle attività industriali, ma anche dei servizi sociali. Per quanto riguarda la vita privata, l’ipertrofia normativa del neoliberismo giunge a stabilire per legge i comportamenti leciti e quelli devianti e, cosa più importante, stabilisce la cornice in cui le relazioni interpersonali sono ridotte a «capitale umano».
David Harvey si limita a registrare i punti di forza – battersi per liberare la società dal potere statale – e la debolezza del neoliberismo (il ricorso alla guerra permanente come strumento di governo mondiale). Un limite, il suo, che si riflette nell’assenza di un’analisi dei conflitti che producono fratture nell’ordine neoliberiste, fratture non sempre ricomposte.
Le deviazioni di rotta, i cambiamenti di marcia, il ricorso alla guerra in quanto fattore costituente di un ordine neoliberista attestano semmai che la partita è più che aperta. Anzi, il fatto che si scriva un libro sul neoliberismo è sintomo che il neoliberismo finora conosciuto ha oramai imboccato il viale del tramonto, grazie proprio alle pratiche di resistenza che ha incontrato sulla sua strada. Non ultime quelle espresse dal movimento no-global. Ma questa è un’altra storia, che dovrà prima o poi essere intrecciata con quella che David Harvey ha scritto.