Quella delle periferie parigine e poi francesi è stata un’unica, lunga rivolta urbana. Di quelle che nei secondi anni Sessanta ci eravamo abituati a chiamare con il loro nome americano, “urban riots” o anche “race riots”, perché avvenivano nelle metropoli e avevano per protagonisti gli afroamericani. Le rivolte negli Stati Uniti sono sempre state più brevi e più violente. Alcuni degli aspetti che le caratterizzarono si ritrovano nei fatti francesi delle scorse settimane.
In particolare, è comune il fatto che i protagonisti fossero e siano giovani la cui cittadinanza non ha dato loro la possibilità di accedere a una condizione sociale non marginale. Non gli ha dato “uguaglianza” in Francia, così come, negli Stati Uniti, gli ha negato il “perseguimento della felicità”. Gli Stati Uniti ci sono sempre serviti come grande vetrina in cui osservare quello che sarebbe poi arrivato anche da noi. Anche le riots sono successe prima là. I processi di discriminazione e di emarginazione sociale alla base delle rivolte non sono uguali; non lo è la loro storia. Tuttavia le rivolte hanno il loro fondo comune nelle inadempienze del potere, nell’inganno con cui i “princìpi” vengono celebrati nelle retoriche ufficiali e nella violenza con cui i ceti dominanti difendono i loro privilegi.
Nell’ultima delle grandi rivolte americane, quella di Los Angeles del 1992, non aveva ancora fatto la sua comparsa la teoria dello “scontro delle civiltà”. Per individuare le ragioni della rivolta non c’erano strumenti diversi dalla conoscenza storica, dall’indagine sociologica e dalla lettura economico-politica dei fatti. Ora invece la teoria elaborata da Samuel Huntington e volgarizzata sui giornali di tutto il mondo, è stata un utile strumento per giudicare i fatti senza comprenderli. Pochi hanno ricordato che, in Francia, il “Rapporto Stasi” aveva individuato tutti i termini materiali del problema due anni fa; molti invece hanno attribuito la rivolta all’antagonismo culturale che contrappone la popolazione di colore delle banlieues a quella bianca dei centri cittadini, all’odio islamista della racaille. Se così fosse sarebbe stato dichiarato senza possibilità di equivoci da parte degli stessi rivoltosi. Le rivolte sono dei manifesti, che enunciano a grandi lettere le proprie ragioni con il massimo di semplicità: disoccupazione, emarginazione, ingiustizia sociale. Assenza di futuro. Frustrazione e rabbia. Questo era stata Los Angeles, questo è Parigi. A Los Angeles la causa scatenante era stata l’assoluzione dei poliziotti che avevano pestato a sangue Rodney King. Ma le ragioni profonde stavano nell’inversione brusca, negli anni di Reagan e Bush padre (1981- 93), del processo di riduzione della sperequazione sociale che penalizzava i neri e, in quella parte del paese, i latinoamericani. Il neoliberismo reaganiano era stato devastante sulle fasce deboli della popolazione, aggravandone la povertà, la disoccupazione e la precarietà, la marginalità sociale. Inoltre, l’armamentario razzista era stato riesumato per giustificare le politiche discriminatorie:
Reagan chiamava sprezzantemente “welfare queens”, regine del welfare, le madri sole a cui voleva tagliare i sussidi; Bush non esitò a usare spot razzisti contro il suo concorrente – il “greco” Dukakis – nelle presidenziali del 1988. Ma fu il tentativo di chiudere nuovamente i neri nei ghetti, dopo che le lotte dei vent’anni precedenti ne avevano socchiuso i cancelli, a creare le condizioni di fondo della rivolta. La percezione del presente oscuro e del futuro negato fecero corto circuito con la violenza poliziesca e l’ingiustizia perpetrata dai giudici. La rivolta esplose violenta, facendo più di cinquanta morti, oltre duemila feriti e quindicimila arrestati. I rivoltosi distrussero quello che avevano a portata di mano. Non andarono ad assediare i palazzi del potere. Attaccarono i simboli più a portata di mano del nemico e del benessere a loro negato: auto della polizia, supermercati e grandi magazzini, negozi di beni di consumo ed elettrodomestici, concessionarie di automobili. Gli incendi furono più di cinquecento e delinearono la mappa della rivolta come segnali di fumo nella prateria.
E’ stato così anche nelle periferie francesi. Le rivolte non hanno progetto, se non quello immediato di aggredire le circostanze stesse dell’emarginazione e di far vedere l’atto distruttivo. Che cosa è più visibile, agli occhi delle telecamere e quindi del mondo, di un’auto o di un edificio che brucia nella notte? Chi guarda da lontano si domanda se le distruzioni non renderanno ancora peggiori le condizioni, se non renderanno più rigide le esclusioni. Pur legittime e di buon senso, quelle domande rivelano il proprio limite: pensare che sia definibile un confine tra quello che già è insostenibile e quello che sarà ancora più insostenibile. Sottigliezze. Sofismi della sociologia e magari della politica, quando vuole essere ragionevole. Applicazione di una sorta di razionalità generale a un fenomeno la cui unica lucidità sta nel discernere nel suo stesso farsi i propri obiettivi e le proprie ragioni.
Si è detto che la rivolta segna il fallimento del modello francese di integrazione. Ha piuttosto segnato la fine dell’ipocrisia, che esauriva l’integrazione nella “concessione” della cittadinanza a persone che sono quasi tutte francesi da generazioni.
E che però, per il fatto di essere portatrici di qualche persistente segno distintivo – un nome, dei tratti somatici e un’ombratura della pelle o un velo sulla testa, un indirizzo rivelatore – sono di una disoccupazione tre volte più alta della media nazionale.
O condannate alla precarietà o chiuse in quei ghetti periferici che Parigi ha disconosciuto e allontanato amministrativamente e socialmente da sé. Ma la rivolta anche di altre periferie francesi vuole dire che altri condividono la stessa assenza di futuro.
Ci vuole un fatto drammatico perché si alzi il velo dell’ipocrisia o dell’indifferenza e si “scopra” che esistono le discriminazioni di casta e di classe. Anche nelle aree della rivolta di Los Angeles la disoccupazione era tre volte più alta per i giovani neri e latinos che per tutti gli altri. Le scuole erano segregate e inefficienti, come sono nelle banlieues. La partecipazione elettorale era quasi a zero.
Prima della rivolta, a Los Angeles erano le gang che controllavano, più loro della polizia, il territorio, mantenendovi una certa pace sociale. La rivolta avvenne al di fuori del loro controllo e subito dopo il ritorno della calma, le due più forti – Crips e Bloods – si fecero avanti, disposte a una tregua nella lotta per il territorio pur di tornare ai loro affari. Anche a Parigi la rivolta è avvenuta al di fuori del controllo da parte di ogni autorità, formale o informale, interna o esterna ai ghetti. E non sembra che siano state le gang, e neppure gli imam, né la polizia, a riportare la calma. Le rivolte non hanno progetto, né progettano la propria durata; si spengono, anche se le ragioni della rabbia rimangono.