Rive Gauche – Economisti contro

Il convegno economico, «La critica della politica economica e le linee programmatiche delle coalizioni progressiste», promosso dal manifesto con la collaborazione decisiva di Sergio Cesaratto e Riccardo Realfonzo è stato decisamente utile. Aggiungerei che utile è stata la sua apparentemente eccessiva compressione in una sola giornata. Quindici relazioni, un po’ di interventi e una tavola rotonda in uno spazio di tempo che è andato dalle 9,30 alle 20,30 della stessa giornata è stato un bel risultato. Come a dire «poche chiacchiere». Questi convegni economici servono, ma non sempre, a mettere più in chiara luce lo stato presente delle cose e anche anticipare il dibattito prossimo venturo. Così mi è tornato alla mente il convegno «Tendenze del capitalismo italiano» del marzo del 1962. Forse questo ricordo (da allora sono trascorsi 43 anni) vale solo per i vecchi, ma fu allora che il Pci decise di riconoscere che il capitalismo italiano correva veloce e cominciò ad attrezzarsi di fronte al centrosinistra nascente e su questo punto ricordo anche un intervento di Lucio Magri, che mi arrischio a definire piuttosto Anche questo nostro convegno del 30 settembre 2005, ne sono convinto, sarà ricordato e ci aiuterà nel prossimo futuro, ma intanto, oggi, che dire? Dovremo discuterne e per questo farebbe bene la «Manifestolibri» a pubblicarne gli atti. Per il momento io non mi sento di andare oltre il livello delle impressioni, superficiali e spesso fallaci. La mia prima impressione nata dal confronto tra gli interventi dei vari relatori e la tavola rotonda finale dei politici è data dallo scarto tra politica e cultura. Siamo a un tale livello di autonomia della politica, che i protagonisti della tavola rotonda («la sinistra e il programma di politica economica della coalizione progressista») hanno potuto assolutamente prescindere (neppure polemizzare) da tutto quel che era stato detto nel corso della giornata. Nel 1962 era andata un po’ meglio e c’erano stati scontri seri. Concludere che siamo in una fase nella quale gli intellettuali pensano solo alle cattedre e i politici solo ai seggi in parlamento è sicuramente eccessivo, ma il problema c’è, tanto più che siamo – così sembra – in una fase di tali cambiamenti che è necessaria una continua verifica dello stato delle cose, e anche delle persone. Del resto questa autonomia della politica è emersa – ha detto più di qualcuno – clamorosamente in Francia, dove il popolo ha respinto una costituzione europea che il parlamento avrebbe approvato a grande maggioranza.

Questo stato di fatto (che richiama anche alla crisi della scuola ripetutamente sottolineata nel corso del convegno) di una cultura che non riesce a diventare passione politica e di una politica che non riesce a trarre vigore dalla cultura che c’è, è forse – attualmente – il male più grave delle sinistre, non solo italiane.

Le questioni che le varie relazioni hanno messo a fuoco con precisione di quanto non sia nella discussione corrente sono tante. Ne richiamo solo alcune. Innanzitutto la questione del lavoro e dei lavoratori. Lo sfruttamento è ancora il fondamento di tutto, ma quando la piena occupazione diventa precarizzazione di massa siamo al più grave indebolimento dei lavoratori e del loro potere contrattuale, così come quando il welfare si universalizza (e solo a parole) siamo alla negazione della soggettività del lavoratore e la sua apparente promozione a cittadino è, piuttosto, la sua riduzione a suddito, che può godere della grazia del sovrano. La democrazia diventa formula vuota.

Ma c’è anche la questione della globalizzazione e dello stato di salute del capitalismo, che può essere in declino nei suoi storici insediamenti, ma cresce in Cina, in India e, mondialmente (anche con la guerra) è assai più forte di quanto non sia mai stato.

E l’Unione europea, che tutti abbiamo voluto e che per l’Italia è stata possibile soprattutto per il sacrificio dei lavoratori, che cosa è diventata adesso? Una prigione monetarista o un ente inutile come pure è stato detto? E quando si parla di ritorno all’intervento pubblico e, quindi, di stato non si può fare a meno di chiedersi che cosa è oggi lo stato nazionale, preso in mezzo tra l’internazionalizzazione e le varie devolution, in Italia incoraggiate non solo dalla Lega, ma anche dall’attuale finanziaria, la quale dice a comuni, province e regioni: arrangiatevi e fatevi stato.

Ma il dato pesante che ho tratto dalla partecipazione al convegno è che attraversiamo una fase di «sconfitta storica» del mondo del lavoro e anche del cosiddetto ceto medio. A proposito voglio richiamare l’attenzione su un libro di Ronald Dore (Il Mulino). Dore scrive che Karl Polany individuò nella crisi del `29 «il prodotto finale di un lungo processo storico attraverso il quale l’economia si era sradicata dalla società». E Dore continua dicendo che seguì la seconda guerra mondiale (quella contro i fascismi) e i vincitori operarono per riconnettere l’economia alla società. Bertrand Russel nel 1947 afferma: «Dobbiamo imparare a conciliare l’individualismo necessario per il progresso con la solidarietà necessaria per la sopravvivenza». Nel dopoguerra si ebbero la diffusione del welfare e la piena occupazione in tutta l’area di sviluppo capitalistico.

Quel compromesso democratico formatosi dopo la seconda guerra è crollato e, aggiunge Dore, «al cambiamento strutturale si è accompagnato anche un cambiamento ideologico. Non solo più diseguaglianza, ma anche una maggiore tolleranza delle diseguaglianze».

Concordo con Dore. La crisi nella quale siamo ha anche un fondamento complessivo, di storia politica e sociale e – aggiungerei – militare. Volendo concludere in termini di economia direi che abbiamo consumato tutti i profitti della seconda guerra mondiale e non vogliamo aspettare un’altra guerra. A meno che non sia già cominciata senza che noi l’abbiamo capito.