Ritratto di un reporter poco importante

Secondo Google , Adjmal Naqshbandi non è affatto morto. Anzi.
Digitando ieri il suo nome sul motore di ricerca, la prima paginata ripeteva ossessivamente la notizia del 20 marzo: «E’ stato liberato anche Adjmal Naqshbandi, l’interprete sequestrato con Daniele Mastrogiacomo il 5 marzo scorso in Afghanistan…E’ stato liberato anche Adjmal Naqshbandi, l’interprete sequestrato con Daniele Mastrogiacomo…».
Adjmal è stato decapitato domenica dal gruppo di talebani che lo teneva in ostaggio e non l’aveva mai lasciato libero, nonostante gli accordi con Emergency e con il governo italiano. Adjmal aveva soltanto 23 anni, ma era un giornalista e uno stringer già molto qualificato. Nel lessico giornalistico, lo stringer è un reporter free-lance che vive e lavora in contesti di guerra o comunque in zone ad alto rischio, spesso pagato dagli inviati stranieri per accompagnarli nei luoghi più impervi e sconosciuti o per scandagliare informazioni altrimenti difficili da ottenere. Oppure sono le testate giornalistiche ad affidarsi a questi giornalisti del posto per avere delle notizie in tempo reale, le cosiddette breaking news .
Nel suo curriculum Adjmal vantava collaborazioni con Repubblica , la Bbc e il Tokyo Times .
Uno bravo, che conosceva bene l’inglese e i territori più pericolosi battuti dalla guerriglia talebana del mullah Dadullah. Era stato lui ad organizzare l’intervista con uno dei leader dei Taliban, e con Mastrogiacomo si era avventurato nella provincia meridionale dell’Helmand armato di «penne e bloc notes».
L’intervista non ci fu: catturato con l’inviato di Repubblica a pochi chilometri da Laskar Gah, con lui aveva assistito alla macabra decapitazione dell’autista Sayed Agha. Mastrogiacomo guardava la scena impietrito, Naqshbandi invece piangeva e gridava: «Ci ammazzano!».
Nel reportage che il reporter italiano pubblicò il giorno dopo la liberazione, troviamo un Adjmal psicologicamente provato dalla prigionia, terrorizzato: «Lo esortavo a reagire, a non usare quella tecnica della vittima, del finto malato, quasi dell’offeso. Avevamo davanti un gruppo tosto, forte, deciso. Non c’era nulla da essere offesi: ci avevano venduti», scrive Mastrogiacomo. Mastrogiacomo scrive anche che Adjmal ormai non credeva più a nulla di quanto dicessero i carcerieri, nemmeno quando gli comunicano l’imminente rilascio:« Ajimal, il mio collega, sbanda. È bianco in volto. Continua a tenere il muso. Mi ha sempre detto di non credere più a niente. Impreca contro il governo Karzai, colpevole, a suo dire di provocare continui ritardi nel rilascio».
Lo stringer afghano aveva ragione: meglio non credere più a niente, specialmente quando sei in compagnia di un prigioniero che vale più di te in quanto occidentale. Il giovane reporter sapeva che la vita degli occidentali è presa in grande considerazione dai media e dai governi nazionali. Se muore anche un solo soldato Nato, i giornali stranieri danno risalto alla notizia; ma se muoiono decine di afghani, nessun fremito. E’ la spietata regola del giornalismo. I talebani, come i gruppi della guerriglia irachena, conoscono alla perfezione il meccanismo e lo sfruttano sapientemente: rapiscono lo straniero, girano il video, inducono alla pietà. Poi, occasionalmente, sgozzano. Adijmal sapeva di non essere prezioso per il suo governo, né per quello italiano. E difatti, secondo quanto apparso ieri sulle agenzie di stampa, la sua morte è stata utilizzata per fare pressione sul governo francese, in apprensione per i due cooperanti rapiti nei giorni scorsi.
Nel video girato dai carcerieri, Adijmal ha il viso di un ragazzo serio dagli occhi che si sforzano di emanare tranquillità e forza d’animo. Ai talebani non deve essere piaciuto quello stile sobrio che mostra in una foto pubblicata da Peacereporter , con i capelli col gel e la giaccia bianca all’occidentale.
L’hanno accusato di essere una spia per conto della Nato, mentre il padre ha sempre affermato il contrario: che Adijmal era un buon musulmano e che faceva semplicemente il suo lavoro, cioè il giornalista- stringer . Dadullah diceva anche che lo zio era a capo del distretto di Bagram, e che lo stesso Adijmal aveva offerto dei servigi agli americani. Tutto falso, continuava a sostenere la famiglia.
Alla notizia della sua barbara morte, sgozzato come un agnello nel giorno della Pasqua occidentale, i Naqshbandi hanno avuto un tracollo: la madre ha sofferto un collasso ed ora si trova in ospedale,
il padre è stato ripreso dalle telecamere mentre piange, non se la sente di parlare.
E’ toccato al fratello Munir chiedere esplicitamente a Karzai di adoperarsi per riottenere la salma di Adijmal. Nel pomeriggio di ieri, un portavoce delle milizie ha indicato che il corpo decapitato del ragazzo si troverebbe nel distretto di Garnsir, nella provincia meridionale di Helmand. Cioè poco lontano dal luogo del rapimento.
Adijmal faceva parte della stampa afghana, un gruppo di giornalisti della tv, della radio e della carta stampata che ieri mattina si è riunito a Kabul e poi ha manifestato con tanto di cartelli davanti al palazzo del governo per ribadire che i reporter non sono prede di guerra e che Karzai deve garantire la loro incolumità. In risposta al tremendo assassinio di Adijmal, i suoi colleghi hanno indetto una settimana di silenzio stampa sul mullah Dadullah e le sue truppe, e un mese di black out informativo sui talebani.
L’associazione di giornalisti Articolo21 ha listato a lutto il proprio sito, la Fnsi ha condannato duramente la decapitazione.
Così, da semplice afghano sconosciuto, Adijmal diventa una vittima di guerra degna di considerazione.