Bentornato a Daniele Mastrogiacomo. A lui e (vogliamo crederci) al suo interprete: la loro liberazione è un momento di gioia e di sollievo. Per loro, le loro famiglie, gli amici e i colleghi, per tutti noi. Una gioia offuscata solo dal ricordo di un autista ucciso, memoria da non rimuovere ma che rafforza il sollievo per l’esito di ieri pomeriggio.
Potrebbero sembrare parole rituali, scontate: non lo sono. Chi ha vissuto – direttamente o meno – un rapimento di guerra lo sa bene. Sa che in quella privazione di libertà si rispecchia una diminuzione dell’umano che colpisce chiunque non rinchiuda il mondo nella propria personale esistenza. Perché se un sequestro o una vita minacciata sono già di per sé un orrenda cosa, il contesto di guerra ne esalta la totalizzante mostruosità.
Uscirne positivamente è un’iniezione di fiducia. Tanto più quando le modalità che determinano il buon esito finale aprono altre speranze, in controtendenza rispetto allo scenario che ha portato al sequestro.
Si è aperta in questi giorni, grazie a un’intervista di Piero Fassino, una discussione sulla necessità di coinvolgere i talebani al tavolo delle trattative per la pace in Afghanistan. C’è da esserne lieti, perché rompe con la logica della guerra «etica» e con l’antica cultura della fermezza; per riportare il confronto internazionale sul piano del realismo. Non che questo realismo sia particolarmente entusiasmante (nessuno pensa che i talebani o chi per loro possano costituire un punto di riferimento, magari per spartirsi un paese), ma perlomeno ridà razionalità all’agire politico, devastato negli ultimi anni dall’ideologia della guerra preventiva, che ha fatto fare un salto all’indietro di quattro secoli alla cultura occidentale.
Un fare che potrebbe permettere alle società (cioè a donne e uomini «comuni») di ritrovare uno spazio d’azione pubblica, spazio cancellato dalla violenza della guerra come forma prevalente della politica.
La liberazione di Daniele Mastrogiacomo attraverso i canali della trattativa – supportata dall’azione di un’organizzazione umanitaria come Emergency -, l’aprirsi di una riflessione sui disastri delle guerre «etiche» (o umanitarie) e un’iniziativa internazionale per arrivare a una conferenza di pace che coinvolga tutte le parti direttamente interessate («nemici» compresi), sono tre fatti positivi.
Anche se siamo ancora lontani dall’assunzione della pace come valore – non solo a parole – universale, anche se siamo lontanissimi dal comprendere quanto di capitalistico ci sia in ogni guerra, possiamo – almeno per oggi – festeggiare la liberazione di due persone e affrontare con un po’ più di fiducia quel «treno di guerra» che fino a poco fa sembrava inarrestabile. E, magari, pensare che il ritorno a casa dei soldati dall’Afghanistan non sia una chimera.