Chi sono questi duemila fantasmi che applaudono, fischiano, s’infiammano nella sala prova macchine di Mirafiori, porta 8? Sono gli stessi che dall’altra parte di viale Settembrini applaudono, fischiano e s’infiammo, di qua Carrozzerie ed Enti centrali, di là Meccaniche e Presse. Sono gli stessi duemila del pomeriggio, sempre uguali e sempre diversi, sempre qui, a Mirafiori, la fabbrica che non c’è e invece è piena di operai invisibili. L’ultima volta che i tre segretari generali di Cgil, Cisl e Uil li avevano visti era successo ventisei anni fa, era ottobre, l’ottobre ’80, l’autunno della Fiat. Da allora, più niente. Fino ad autoconvincersi tutti in coro, politici e giornalisti, e tanti sindacalisti, che Mirafiori era morta, finita, foto d’epoca del fordismo che fu. L’ideologia postindustrialista e antioperaia è più forte dei numeri della bilancia commerciale, secondo cui tra il poco che si salva dell’industria italiana c’è quella dell’automobile. E le automobili, oltre che a Melfi e Pomigliano e in tanti altri insediamenti, si costruiscono a Mirafiori. In 15 mila le costruiscono, nella fabbrica più grande d’Italia. Non sono più 60 mila come nel ’79, sono «solo» 15 mila. Una cittadina di provincia dove si fatica e si produce reddito «a mille euro al mese».
Guglielmo Epifani, Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti sono arrivati a Mirafiori di buon mattino, cielo terso, le Alpi finalmente bianche a fare da sfondo alle ciminiere. Non come in quell’autunno ’80, quando dentro la nebbia piovevano pietre. Sono ripartiti in giornata, senza scappare come capitò a Lama, Carniti e Benvenuto, senza che nessun giornalista dovesse aiutarli a lasciare in fretta e furia una fabbrica ostile – ostile perché «tradita» – con qualche graffio e ombrellata di troppo. Non hanno ricevuto ovazioni, sono stati lasciati parlare ma a condizione che passassero più tempo ad ascoltare il malcontento operaio. Gli operai hanno detto ai tre segretari tre cose: 1) «sulla nostra condizione nessuno scambio è possibile e senza di noi non si tratta sull’organizzazione del lavoro». «Se mi fanno lavorare 6 giorni a settimana mi tolgono la vita. Il nostro orario non è merce da scambiare, scambiate quel che volete, non il nostro tempo» (Marcello, Lastratura). 2) Il sindacato non dev’essere «la stampella del governo» (un operaio delle Meccaniche a Angeletti), i governi «si giudicano per le politiche che fanno, non ci sono «governi amici»». E le politiche che fa Prodi non convincono le ex-tute blu, ora di tutti i colori, a misura della frammentazione del lavoro. 3) Su pensioni e flessibilità «non potete decidere nulla senza il nostro consenso espresso con un voto». Un gruppo di operaie sotto il palco tempesterà per due ore Epifani gridando la fatica, la pensione che non arriva, l’usura vissuta sulla carne da persone fatte di «carne, ossa e sentimenti». «Dopo trentasette anni – dice il cassintegrato degli Enti centrali – non so se andrò in mobilità, se tornerò al lavoro. So solo che devo umiliarmi e chedere aiuto ai miei genitori ottantenni, giù al paese».
Rabbia operaia, democrazia operaia. Epifani e Angeletti reggono l’urto, un vecchio sindacalista Fiom, che era qui anche ventisei anni fa, mi dice all’orecchio: «Temevano peggio». Bonanni fatica un po’ di più, deve tagliare l’ultima parte del suo intervento e passare all’ascolto. Questi operai, dopo aver ascoltato il giudizio dei tre confederali sulla Finanziaria, accompagnando con rarissimi applausi, qualche fischio e qualche mugugno tutte le cose che Cgil, Cisl e Uil sono «riuscite a strappare al governo», hanno ricordato il passato recente: «Il Tfr è nostro, ci dite tutti, ma poi lo decidete voi senza interpellarci». Hanno parlato soprattutto di futuro, di pensioni e flessibilità. Ma prima ancora di condizioni di lavoro. Di modificazioni di «orari, cadenze, carichi» che «non possono decidere i padroni, sennò che ci stanno a fare le Rsu?».
Ma cosa sono, oggi, le Rsu? Qualcosa di ben diverso da ventisei anni fa, quando i delegati erano rappresentanti di gruppi omogenei eletti sulle linee con sistema uninominale. Oggi, mi raccontano loro stessi, «siamo più rappresentanti politici che riportano in fabbrica la linea delle rispettive organizzazioni, che non soggetti contrattuali». La Fiat è cambiata, Marchionne ha fatto il miracolo («e noi come sempre abbiamo pagato il conto») e non si parla più di chiudere Mirafiori. Bene. Ma «io continuo a buttare sangue e il mio delegato non contratta più niente». Parlano delegati e operai dei vari settori, Verniciatura, Lastratura, Impiegati, Enti centrali. Molti sono della Fiom, rappresentano sentimenti condivisi e ricevono applausi. I fischi, invece, non vengono risparmiati al delegato Sala dell’Ugl, Verniciatura. Perché lo fischiano? Perché «sappiamo distinguere le critiche giuste da quelle dei nostalgici di Berlusconi». Alfiero, delegato Fim e sindaco unionista di un paese del Torinese, sbaglia intervento: per controbattere alle critiche alle posizioni espresse da Epifani inizia domandando se «era meglio quando c’era Berlusconi o adesso che c’è Prodi?». Perché i fischi? C’è chi me lo spiega: «Perché a questo ricatto non ci stiamo: con lo spauracchio del Berlusca vogliono farci bere le porcherie dei nostri». Uscendo, al termine dell’assemblea con Epifani, tre operaie mi spiegano animatamente un concetto che si può riassumere così: i nemici sono chiari, il padrone e Berlusconi. Per essere chiamati amici, però, sindacalisti, politici e governo di sinistra devono meritarselo. Devono comportarsi da amici.
«Dovresti venire a vedere i reparti, dopo l’assemblea. Ti impressionerebbero e sai perché? Perché sono vuoti», mi dice l’impiegato Di Gioia. Forse, la prossima volta, la Fiat ci concederà di vederli, dopo ventisei anni. Intanto i giornisti si accontentano di aver visto un’assemblea operaia. Un’assemblea vera, senza timori e falsi pudori per la presenza dei segretati generali di Cgil, Cisl e Uil e dei flash e dei block notes dei cronisti. Alla fine del faccia a faccia di Epifani, anzi, gli operai e soprattutto le operaie, si avvicinano, ci circondano, raccontano storie di vita faticosa e di lavoro duro e ripetitivo. Tutti e tutte a testa alta riassumono il senso dell’assemblea: vogliono un sindacato che sia autonomo e democratico; vogliono decidere sulle cose che li riguardano; vogliono poter andare in pensione; vogliono lavoro e futuro per i figli e non flessibilità; vogliono giustizia fiscale e redistribuzione dei redditi. «Non è qualunquismo dire che ci siamo stufati di produrre e pagare per tutti. E’ la verità», dice un’operaia che teme lo scalone di Maroni e non vede «abbastanza convinzione nella Cgil a battersi contro la legge 30. Cisl e Uil posso capirli, ma la Cgil…». Per tutti e tre, Epifani, Bonanni e Angeletti, un invito: «Tornate». Sottinteso, a rendere conto di quel che avrete combinato dopo gennaio al tavolo con padroni e governo su pensioni e flessibilità». L’importante è che non venga ripetuto «l’imbroglio del Tfr e del cuneo fiscale». Sindacalisti avvisati…
Epifani è soddisfatto, ritiene superata la prova nella fossa dei leoni. «Dentro Mirafiori non ero mai entrato», dice, e lascia intendere che in futuro tornerà, non si tirerà indietro. Angeletti ammette che tornare a Mirafiori dopo ventisei anni «è stato più facile, ora che la Fiat è in ripresa», ma giura che ci sarebbe venuto ugualmente anche senza aiutino. E poi sia chiaro, «io in questa fabbrica c’ero già stato quando ero segretario della Uilm». Bonanni ricorda che è stato eletto da poco, per questo è alla sua prima volta a Mirafiori. Hanno preso qualche fischio, ma le assemblee operaie non sono pranzi di gala.