Ritirateli

Si richiamino le truppe italiane dall’Iraq: questo dicono i corpi dilaniati dei militari e dei civili. E si richiamino oggi. Ogni giorno che passa quelli che restano sono esposti a una guerriglia più forte, organizzata e – chiunque sia a dirigerla ed è difficile che si tratti di un gruppo terrorista straniero – che ha l’appoggio evidente della popolazione. La guerra all’Iraq non l’abbiamo voluta. L’ha voluta l’amministrazione neoconservatrice americana. Non è stata autorizzata dalle Nazioni Unite. Non abbiamo alcun dovere di inviare un contingente italiano, né dell’esercito, né dei carabinieri, né alcuna ragione di tenervelo. E’ stata, come avevamo scritto fin da quando ne gravava la minaccia e non occorreva essere profeti, un’impresa folle, preparata dagli Usa fin nei minimi particolari sotto il profilo dell’invasione e dello schiacciamento di un esercito in campo, e del tutto impreparata per la fase che sarebbe seguita. E ancor meno in vista di una guerriglia che forse, ripiegando sotto l’urto iniziale per la grandissima sproporzione delle forze, avrebbe potuto dispiegarsi dopo l’azione militare vera e propria. Come sta avvenendo.

Sappiamo dallo stesso New York Times che fra Pentagono e il Dipartimento di Stato, e al loro interno, molti militari ed esperti civili avevano messo in guardia i falchi, ma questi, i più stolidi che mai abbiano guidato gli Stati Uniti, hanno proceduto senza alcuna informazione sul paese reale e nella convinzione che le truppe americane sarebbero state accolte con giubilo e gli iracheni, liberati da Saddam Hussein, avrebbero tirato giù alcune statue del dittatore e sarebbero alacremente tornati al lavoro.

Non è stato così. Gli Usa non sono stati accolti come liberatori, ma come occupanti. E dopo giorni di saccheggi senza precedenti cui non si sono opposti, proteggendo ostentatamente soltanto il Ministero del petrolio, è cominciata una guerriglia ogni giorno più mirata. E chiunque sta con gli Stati Uniti o è venuto sotto le loro ali o è stato imposto da Bremer è considerato un occupante o strumento dell’occupante e quindi un bersaglio. Tutti, comprese le organizzazioni umanitarie prima non presenti, compresa la rappresentanza delle Nazioni Unite che ha patito la morte di Sergio Vieira de Mello e dei suoi collaboratori. E’ una guerriglia nazionalista furibonda e crudele, che si serve di tutti i mezzi, attentati suicidi inclusi, e della quale non si vede la fine.

Per questo gli Stati Uniti chiedono ai loro alleati, dei quali si ricordano soltanto a posteriori, di mandare in Iraq delle truppe in modo da non essere i soli esposti alle pallottole. Si dice per compiti di pacificazione. Ma quale pacificazione? Li vogliono in funzione antiguerriglia. La linea della new strategy – colpire tutto un paese per abbattere un eventuale santuario di Al Qaeda – li ha indotti a metter fuoco al Medio oriente e ve li incastra. Nessun ordine regna nell’Iraq, come in Afghanistan, dove nessun ordine è tornato, imperversano i signori della guerra, le donne sono costrette al burqa come prima e in più torna a dilagare il papavero. Nessun problema di strutture politiche e sociali in Medio oriente né altrove può essere risolto da una guerra. Al contrario. Questa non può che scatenare il peggio.

Non è lecito al nostro governo incoraggiare su questa strada Bush, tantomeno sulla pelle dei soldati e dei carabinieri italiani. Non c’è segno che Washington abbia imparato qualcosa da quel che è avvenuto. Anzi, le ultime dichiarazioni di Bush non escludono che attacchi da qualche altra parte, chiedendo poi agli alleati di funzionargli da retrovia. E’ il contrario di una politica e se l’Italia fosse amica degli Stati Uniti invece che ai loro ordini, oltre a ritirare i propri suggerirebbe a Bush di ritirare i suoi. Questo potrebbe fare il presidente Ciampi che ora lo incontra.

La retorica del lutto non serve a niente. I cocci ormai sono fatti e toccherà alle Nazioni Unite raccoglierli, impresa che appare sempre più dura ed esigerà tutt’altro approccio da quello di Bremer. Ma è l’unica che abbia un senso e offra, forse, una via di uscita.