Rischia la chiusura l’ultima base Usa in Asia centrale

Per il gesto omicida di un loro soldato gli Stati uniti stanno ora rischiando grosso: la perdita della loro ultima base aerea tra quelle «conquistate» in Asia centrale grazie all’11 settembre, o in alternativa l’umiliante consegna del killer a stelle e strisce, privato dell’immunità di cui gode in quanto yankee, a un tribunale del Kyrgyzstan. Due alternative entrambe molto, molto sgradevoli per la superpotenza americana. Ma riepiloghiamo la vicenda.
Era il 6 dicembre quando Aleksandr Ivanov, 42enne autista (russo) della compagnia petrolifera kyrgyza Apc, si presentò all’ingresso della grande base aerea di Manas col suo camion di benzina per rifornire le cisterne. Per motivi che ancora non sono stati chiariti, durante il controllo ai cancelli un militare americano, identificato poi come Zachary Hatfield, uccise Ivanov con una raffica a bruciapelo. Come in tutti i paesi dove esistono basi americane, anche in Kyrgyzstan i militari Usa godono di immunità paragonabile a quella del personale diplomatico e possono essere giudicati solo da tribunali militari statunitensi. Anche per questo Washington non ha mai aderito al Tribunale penale internazionale. Questa volta, però, la faccenda era troppo grave: tantopiù che il Kyrgyzstan già da tempo è irritato per il comportamento arrogante e coloniale degli americani – basti pensare che l’affitto per la base di Manas, la più grande dell’Asia centrale, ottenuta con la grande campagna di persuasione dell’inverno 2001 insieme alla base di Karshi in Uzbekistan, era fino a poco fa di soli 2,6 milioni di dollari, meno di un’elemosina (adesso è stato portato a 150 milioni).
Dunque, il parlamento kyrgyzo è entrato in agitazione sulla vicenda di Manas; e il presidente Kurmanbek Bakiyev ha deciso – e pubblicamente annunciato – che il governo chiederà a Washington di consegnare Hatfield perché sia processato da un tribunale kyrgyzo; in caso contrario «chiederemo la chiusura della base di Manas». All’atteggiamento duro del governo di Bishkek non è certo estraneo il forte riavvicinamento con Mosca degli ultimi mesi, parallelo a quanto avvenuto in precedenza con l’Uzbekistan: il Cremlino sovvenziona e protegge i regimi dell’Asia centrale ex sovietica (che comunque mantengono una fortissima dipendenza culturale ed economica da Mosca) assai più di quanto sia riuscita a fare l’amministrazione Bush; e il Cremlino non ha mai gradito (e tantomeno gradisce oggi) queste basi americane in quello che considera il suo «cortile di casa». Dunque certo spinge i governi locali a sbarazzarsi delle ingombranti presenze. La cosa è riuscita l’anno scorso con il regime dittatoriale di Islam Karimov in Uzbekistan, che ha chiuso d’autorità la base di Karshi per ripicca contro le critiche americane in materia di diritti umani (la base è già passata ai russi). Nel caso kyrgyzo la questione è anche più spiacevole per Washington: primo, perché la base di Manas è più grande e importante di quella di Karshi, ed è ormai l’unica in tutta l’area, il che obbliga a ridispiegamenti strategici complessi; secondo – ma forse anche più importante – perché mette in discussione il principio cui finora le amministrazioni Usa hanno tenuto di più, quello della «ingiudicabilità» dei loro militari da parte dei paesi «selvaggi» o comunque sudditi e dunque inferiori. Va ricordato che sono decine e decine i casi, anche recenti, di militari americani colpevoli di ogni tipo di reato nei paesi ospitanti (le vicende più gravi riguardano la base di Okinawa in Giappone e le basi in Sud Corea), per cui Washington ha ottenuto l’immunità – o talvolta è scesa a compromessi – senza però che l’argomento sfiorasse il mantenimento della presenza militare Usa in loco. Curioso che tocchi a un piccolo paese praticamente senza esercito la gloria di essere il primo ad alzare la voce contro una delle ingiustizie più clamorose di questo tempo imperiale.