GUERRA&DOPOGUERRA
Forse hanno ragione quanti sostengono che la guerra non è più motore dell’economia e che il riarmo serviva a conseguire la piena occupazione. Ma non è detto che la guerra sia comunque un pessimo affare (per chi la vince): al contrario, ci sono almeno due buone ragioni per ritenere che gli Usa abbiano affidato al conflitto una buona parte delle speranze di riavviare una crescita sostenuta della loro economia. Della prima testimonia la polemica divampata a seguito della pubblicazione di notizie concernenti appalti del valore di 1,5 miliardi di dollari per la costruzione in Iraq di scuole, ospedali, ponti, strade, aeroporti ecc., concessi dall’amministrazione americana a quattro cordate di grosse aziende finanziatrici del partito repubblicano. L’impressione, infatti, è che Washington abbia abbandonato la strategia «mordi e fuggi» seguita in Serbia e in Afghanistan e stia puntando verso un’occupazione permanente del suolo iracheno. Tant’è che non ha mancato di esprimere un forte dissenso rispetto alla prospettiva (caldeggiata dalla Francia) che la ricostruzione sia affidata alle organizzazioni multilaterali sotto il coordinamento dell’Onu e di manifestare la propria preferenza per la gestione diretta degli aspetti più importanti del processo di ricostruzione, che assicurerebbe tra l’altro un controllo più penetrante nella scelta della nuova leadership irachena. Se l’obiettivo dovesse essere realmente conseguito, la riduzione dell’incertezza derivante dal disarmo e dal cambio di regime in Iraq potrebbe convertire in una dinamica sostenuta del Pil americano buona parte dei 1.900 miliardi di dollari stimati da William Nordhaus come costo decennale di un conflitto all’esito del quale gli Usa si dedicassero alla ricostruzione. La seconda ragione concerne il primo «cadavere eccellente» della guerra, cioè l’Unione europea. Nonostante le recenti aperture della Commissione sul Patto di stabilità, l’impressione generale dei governi europei è che i vincoli siano troppo rigidi e che l’idea (difesa dalla Bce) secondo cui il miglior modo per combattere gli effetti di uno shock negativo per la crescita consiste nel ridurre i disavanzi e nell’accelerare le «riforme strutturali» (mercato del lavoro, previdenza) sia errata. Stanno qui le ragioni del successo della politica di «divide et impera» che gli Usa portano avanti da mesi nei confronti degli «alleati» d’oltreoceano e che, da ultimo, si è concretizzata nella spaccatura fra il core franco-tedesco dell’Unione, da un lato, e la Gran Bretagna, la Spagna e l’Italia, dall’altro. In Europa, infatti, la guerra potrebbe rivelarsi soltanto un pessimo affare: le previsioni ufficiali di Bruxelles per il 2003 stimano una crescita del Pil dell’1% appena, che potrebbe essere anche minore se dovesse concretizzarsi lo scenario più cupo (aumento del petrolio e crollo della fiducia di imprese e consumatori).
Così stando le cose, ci possono essere due vie d’uscita. Secondo la prima, delineata da Marcello de Cecco, l’Unione europea dovrebbe adottare una strategia analoga a quella della Germania all’indomani della riunificazione, e basata su un programma su scala europea di opere infrastrutturali accompagnato da alti tassi d’interesse, per favorire l’afflusso di capitali nell’area dell’euro. La conseguente rivalutazione della moneta europea metterebbe in crisi le imprese europee tradizionali, che dovrebbero essere incentivate a delocalizzarsi verso i Paesi dell’Europa centro-orientale; in tal modo, questi ultimi verrebbero a godere dei benefici di un investimento reale che, in prospettiva, consentirebbe loro di ridurre il divario con gli attuali membri dell’Unione, diminuendo così le probabilità della paventata ondata migratoria verso i Paesi dell’Europa centro-occidentale che molti studi danno per possibile all’indomani del completamento del processo di allargamento ad Est, mentre i gli attuali membri dell’Unione non solo porterebbero finalmente a termine il processo di svecchiamento della propria struttura produttiva (il che ridurrebbe la pressione «distributiva» sul mercato del lavoro), ma – in prospettiva – beneficerebbero degli effetti positivi della delocalizzazione industriale ad Est sotto forma di accresciuta domanda di importazioni di prodotti e servizi «avanzati».
Un’obiezione che si può muovere a questo avvincente scenario è che la sua messa in pratica richiede un tasso di coesione fra i membri dell’Unione che attualmente non c’è e, per di più, la disponibilità degli Stati Uniti a privarsi di quello che forse è il principale strumento di riequilibrio della propria bilancia dei pagamenti, vale a dire il «signoraggio» esercitato tramite il dollaro. I mercati finanziari lo sanno bene e, proprio per ciò, l’esordio del conflitto è stato segnato da un’inversione di tendenza nei rapporti fra euro e dollaro, con quest’ultimo che ha preso nuovamente ad apprezzarsi (pur restando ampiamente al di sotto dei livelli record del 2000-2001): se c’è una cosa che gli Usa non possono permettersi (e certamente non permetteranno) è che il dollaro venga scalzato dal ruolo di moneta di riserva mondiale.
Resta, allora, la seconda via d’uscita. E cioè che, di fronte al persistere di un liberismo ideologico di cui solo l’Ulivo resta incrollabilmente convinto, si metta in moto un processo di disgregazione dell’Unione europea. Lo ha argomentato, tra gli altri, Paolo Savona: una volta che si è istituita una moneta unica in un’area monetaria universalmente riconosciuta «non ottimale» e si sono azzerati gli spazi di manovra delle politiche fiscali e di bilancio, la responsabilità del mancato conseguimento degli obiettivi fissati nel Patto di stabilità non può essere scaricata sui singoli stati; bisogna trovare soluzioni a livello europeo. E se non si trovano, come finora non si sono trovate, bisogna tornare all’unione doganale, giacché è meglio pagare i costi del disordine che si è autonomamente creato piuttosto che quelli di un disordine creato da istituzioni sovranazionali caratterizzate da un vistoso deficit democratico.
Non si sottovaluti la plausibilità di questo scenario. La disgregazione dell’Unione, o comunque un significativo arresto del processo d’integrazione, eliminerebbe, in effetti, uno dei principali fattori di instabilità sui mercati finanziari, attualmente legato alla rivalità euro-dollaro, e consentirebbe agli Stati Uniti di fruire in modo nuovamente incontrastato dei benefici del signoraggio, così come all’epoca della new economy recentemente magnificataci dal Nobel Stiglitz (che, ricordiamolo, ne fu ispiratore). Unito alla possibilità di disporre di «governi amici» nell’area del Golfo, potrebbe rivelarsi un fattore di importanza non secondaria nella ripresa del ciclo americano. E forse è proprio per questo che fonti vicine al Tesoro e alla Farnesina sussurrano di un attivismo italiano sul fronte della ricostruzione in Iraq, che dovrebbe essere presto consacrato da una gita di Tremonti a Washington, per verificare se è vero che gli Usa non dimenticano il fedele alleato italico.
Messa in questi termini, la più importante conseguenza economica della guerra sarebbe legata al suo valore «costituente», cioè al profondo rivolgimento delle assise economiche e politiche che essa può favorire.