RIPARTIRE DALL’INDUSTRIA PER UN’ALTRA INDUSTRIA

“Ci siamo adattati a fare sedie, carte e stracci eleganti, rinunciando alla chimica, all’elettronica, all’aeronautica e ora persino all’automobile. Siamo però arrivati al punto di non ritorno”, (Marcello De Cecco “L’economia di Lucignolo”). Ed è proprio così, in quanto l’impresa italiana ha scelto di collocarsi nel segmento basso della competizione internazionale, ove ci si misura solo sul prezzo e non su quella qualità che vuole ricerca, innovazione, formazione (e, quindi, ingegneri ed operai di qualità),tutte cose che costano. Risultato: oggi non solo l’industria, ma l’intera economia italiana, è stretta in una morsa tra i paesi che hanno mantenuto le chiavi della tecnologia – come la Francia e la Germania, nell’energia, nell’elettronica, nella chimica – e i paesi che, potendo disporre solo di un bassissimo costo del lavoro, sono diventati sede di tutti gli insediamenti industriali delle transnazionali.
L’Italia ha perciò dilapidato un patrimonio in campo elettromeccanico e farmaceutico in particolare, smantellando e svendendo la grande industria pubblica e semi-pubblica, come Iri ed Enel e, come ci ricorda Augusto Graziani sul “Manifesto” del 23 luglio u. s., (“Grandi imprese: una crisi tutta italiana”), frammentando e svendendo all’estero la grande industria privata, come potrebbe oggi essere il destino anche della Fiat. Tutto ciò è avvenuto, ed avviene, assecondato da governi, questo e i precedenti, affatto preoccupati della pervasività del capitale straniero nell’industria italiana – “aspetto di scarso rilievo nell’economia della globalizzazione”, così discettò Romano Prodi, allora Presidente del Consiglio – e indaffarati invece a risarcire gli industriali in ripiegamento offrendo loro ora pezzi di Stato Sociale, dalla sanità ai fondi pensione integrativi, ora pezzi di industria pubblica dei servizi, purché a cliente garantito, come l’Enel e le ex municipalizzate.
Prima sintesi: la crisi dell’industria italiana non viene affrontata con un ragionamento serio sulla struttura produttiva di un paese moderno, ma solo consegnando agli industriali ora un po’ di residua industria pubblica (solo se profittevole però) ora un po’ di Stato Sociale. Ma fino a che punto un paese siffatto può reggere? Nella condizione testè abbozzata del paese, la nostra economia, essi si trovano collocati su uno scivoloso piano inclinato che porta l’Italia a produrre appunto “sedie,carte e stracci eleganti …” ma a importare tutto il resto, che va distribuito e commercializzato. Qui risiede l’equivoco, o l’imbroglio, della new economy, ove si usano tecnologie anche raffinate al servizio di un obiettivo generale perdente.
E’ un paese, il nostro, composto da venditori e compratori, i produttori sono oltre i confini con un riflesso obbligato in ricaduta: a questa situazione si regge fino a quando? Solo calcando la mano, industriali e Governo, sulla flessibilità totale della manodopera (si scrive art. 18, si legge contratto collettivo nazionale da cancellare) e sulle privatizzazioni dell’ancora privatizzabile, dalle pensioni ai restanti servizi. Alla soppressione dell’art. 18 ci si ribella, ma non monta tuttora la reazione, in certa sinistra e nel sindacato, alle privatizzazioni che sono l’altra arma da disattivare.
L’autunno può essere la stagione propizia per lottare e riprendere a ragionare, anche di industria e di economia. Proponiamo tre spunti.
Primo: restringendo la spesa pubblica, come fa anche questo Dpef, si danneggia l’economia. Facciamo il caso dell’energia e delle Ferrovie. Nei due casi l’Italia si è fatta sfuggire l’industria manifatturiera alle spalle (come quella di turbine, caldaie, alternatori, fra le più avanzate del mondo) e la ricerca con relativa progettazione. Risultato: si taglia il personale all’osso, sui treni e nelle centrali, e si abbandona la manutenzione degli impianti con effetti che, nel caso delle Ferrovie non è il caso di elencare, tanto sono evidenti e catastrofici. Nell’immediato, si raggiunge sì il risultato finanziario ma lo si raggiunge “mangiando il capitale”. Questo dell’energia e dei trasporti, servizi industriali del presente e del futuro è, deve diventare, un punto di contrattacco su cui richiamare il sindacato, la sinistra e anche quei dirigenti industriali che, tuttora, mantengono alto il senso del pubblico. Si facciano avanti.
Secondo: ci sono dei dati che, più di tanti ragionamenti, descrivono il caso dell’industria italiana. Nel 1981, dati Confindustria, gli addetti all’agricoltura, all’industria e ai servizi erano, in Italia, rispettivamente il 4,5%, il 41%, il 54,5%. Oggi, la fonte è la stessa, sono il 2%, il 31%, il 67%. Insomma, pur colpito dalla fuga del lavoro verso i paesi a bassissimo costo dello stesso e asciugato dai processi di automazione flessibile di un nuovo “macchinismo”che brucia il lavoro vivo, il lavoratore industriale italiano rappresenta, pur sempre. 1 /3 di tutta la forza lavoro del Paese. Ma, oggi, questi lavoratori si attestano più nelle piccole che non nelle grandi realtà e, in queste piccole e micro realtà, la loro condizione si precarizza. Oggi la dimensione media della piccola (e media) impresa industriale italiana si attesta sugli 11 addetti, nel 1981 era di 32. E’ questa una dimensione che consente, forse, agilità nel coprire spazi di nicchia e di interstizio, vincolati sempre dalla variabilità di una committenza collocata altrove: in Francia o Germania, ad esempio, come luoghi decisionali; in Slovenia o Corea del Sud come grandi fabbriche industriali. Il terziario industriale italiano, pertanto, non ha più alle spalle una propria industria di qualità, che si è smantellata e, per sopravvivere, deve legarsi a lontane committenze, nella costante angoscia di perderle.
Piccolo non è affatto bello. Oltretutto il credito non dà nemmeno una mano ai piccoli. “Con le imprese nane l’Italia non corre” riconosce lo stesso Sole 24 Ore del 25/6. Questo terziario è perciò appeso a un filo. Così i suoi operatori. Terzo: abbiamo visto che la classe operaia della grande impresa fordista si decentra frammentandosi e la sua flessibilità è legata alle oscillazioni della committenza. In ragione di tutto ciò questa classe si precarizza.
Un ultimo dato: solo 10 anni fa, ogni 100 lavoratori assunti nell’industria, 6 erano a part-time, 32 a contratto a termine, 62 a tempo indeterminato. Oggi, 16 sono a part-time, ben 57 sono a contratto a termine nelle varie tipologie, solo 27 a tempo indeterminato (dimezzati in soli 10 anni!).
Il cerchio qui si chiude: la scelta di abbandonare la qualità industriale, (ricerca, innovazione di prodotto, formazione) fa dell’Italia un paese di venditori e di compratori, di sub-fornitori in nicchia iper-flessibili nella fabbrichetta e senza più servizi sociali fuori dalla stessa, perché altrimenti crolla l’intero sistema.
Siamo al punto di non ritorno? Si può solo peggiorare? “Non è mai troppo tardi per riprendere il cammino del progresso; ma bisogna mostrare di essere consapevoli di come va impostata la struttura produttiva di un paese moderno” (sempre Augusto Graziani). E’ uno dei ragionamenti da sviluppare a sostegno delle lotte di autunno. Non vediamo molti che lo possano fare oltre a Rifondazione comunista ed a altri soggetti critici del sindacato, dell’Università, delle fabbriche, dei movimenti. Sollecitiamoli. A partire da un assunto. Si può certo girare pagina, “non è mai troppo tardi”, ma ripartendo, ancora, dall’industria e dall’operaio industriale. Essi hanno perso centralità, si dirà, ed è vero, ma hanno perso centralità politica, sono stati abbandonati anche da una sinistra – talvolta affascinata dalla sola critica allo sviluppo, all’industria, al lavoro – ma mantengono intatta (l’operaio industriale) la centralità sociale. Non si scappa. Non fosse così perché, poi misuriamo ogni fase dall’entrata in campo o meno, non del lavoratore delle Poste o di quello aeroportuale che hanno mille ragioni per lottare, ma del metal-metalmeccanico che oggi la Fiom porta in piazza? E, ancora, perché il metro di misura, lo stato di salute o meno della nostra economia, è ancora oggi dato da quel che succede alla Fiat? La risposta è sempre quella e le altre non funzionano: in uno sviluppo capitalistico, anche in quello italiano, che sviluppo proprio non è, ci sono settori che lo segnano,“tirando” o no, ed è tuttora la grande industria residua – la Fiat, l’Enel, la Pirelli – pur circoscritta spesso ad assemblaggi e centri direzionali (gli stabilimenti sono esplosi per il mondo ed i servizi esternalizzati), che decide, o indirizza, una politica di mercato.
La Fiat oggi, ad esempio, dopo aver assorbito ogni concorrenza – Lancia, Alfa, Innocenti, Maserati, Autobianchi – ha sbagliato tipologie, partner, luoghi di insediamento come Brasile e Argentina, tecnologie (la Ferrari è la sua foglia di fico) e si trova a vendere. Ma è pur sempre il ciclo dell’auto quello che, ancora, segna il ciclo capitalistico in una Italia che è fuoriuscita da chimica, farmaceutica, elettro-meccanica, ricerca ed anche da siderurgia e cantieristica.
Certo vorremmo altro: vorremmo si ripartisse dall’energia (e quale?), dai trasporti (e quali?), da un’industria dell’ambiente, per disegnare i tratti di un’altra economia e così impostare “la struttura produttiva di un paese moderno”. Ma un’altra economia la conquisti se ci sono idee, se accumuli forze a sostegno, e se parti, certo per rinnovarla, dall’industria che c’è e, quindi, dall’auto in direzione dell’auto del futuro che non è quella del presente, a partire dal motore a scoppio da superare. E riparti dall’operaio che c’è e che, alla Fiat, è tuttora collocato nei nodi decisivi del potere vero, nei nodi dello scontro sociale che è anche scontro politico.
Le avanguardie ci sono, basta vederle. C’è da impostare un lavoro, anche per il Partito. Se nell’autunno si riprenderà a lottare, il Partito deve entrare, nella dimensione dell’auspicato conflitto, con idee che si muovano nella direzione della saldatura tra quanti oggi in fabbrica, a partire dai lavoratori industriali, si battono per difendere l’art.18 (ed estenderlo), e per rinnovare il contratto nazionale e, quindi, per il salario, con quanti devono riprendere a lottare per un diverso uso della terra, dell’acqua, delle materie prime. La saldatura può avvenire su “altri” prodotti, un’“altra” economia, “altre” fabbriche. Questa è l’innovazione che vuole ricerca.
Parlavamo poc’anzi della Fiat e dell’auto, ma l’”altro”prodotto dell’altra economia potrebbe essere, nel campo della mobilità urbana ed extraurbana, non un nuovo modello, la 600 o la 1100 del 2000, ma un insieme di sistemi di mobilità che prevedano: la rete dei trasporti su ferro, ferrovie e metropolitane leggere ed interrate, parcheggi, poli di interscambio e, anche l’auto: dall’auto oltre l’auto. Così nell’energia e nelle telecomunicazioni. Ripartire dall’industria per un’altra industria quindi, magari individuando 8-10 realtà sul piano nazionale in cui sperimentare idee e quella saldatura in un nuovo blocco sociale composto da quegli operai e da quei giovani. E strappare un caso di successo, un risultato, che faccia dire “si può” e far scattare l’emulazione in tutto il movimento, nella fabbrica e nella società.

* Responsabile nazionale Politiche industriali PRC