3% del Pil è il peso del debito che il Governo vuol recuperare entro il 2007 e 3% del Pil è il costo per il sistema paese della mancata prevenzione nei luoghi di lavoro. Arida contabilità che non ricomprende le immani sofferenze degli infortunati e dei loro cari ma che evidenzia l’assoluta necessità di cambiare rotta nel modello di sviluppo-produzione e di convivenza civile, ridefinendo anche le priorità di intervento e riponendo al centro non tanto un indistinto cittadino-consumatore, quanto gli uomini e le donne che con la loro quotidiana fatica producono la ricchezza di questo Paese.
Non è accettabile assistere a questa guerra non dichiarata, che porta a un milione di infortuni l’anno e oltre 1300 morti, cui vanno aggiunti i casi non denunciati a causa del lavoro nero (la stima, al ribasso, dell’Inail dice 200 mila) e della ricattabilità, così come le morti a causa di malattie di origine professionale. Sono tutte morti «evitabili», come dice l’Organizzazione mondiale della Sanità, perchè statisticamente e tecnicamente prevedibili, e quindi prevenibili.
E’ proprio dalla prevenzione della salute e sicurezza nel lavoro che occorre partire, tornando a far diventare centrale la conquista del movimento sindacale degli anni Settanta, che prevedeva l’inscindibilità di prevenzione-cura-riabilitazione, mentre la sanità è via via diventata ospedalo e farmaco-centrica. E’ con quella riforma che ottenemmo i Dipartimenti di Prevenzione delle Asl, soggetto ancora oggi con compiti primari (gli ispettori del Lavoro hanno competenza, aggiuntiva, in settori quali l’edilizia, il lavoro in sotterraneo e poco altro).
Tornare alla centralità della salute significa da una parte riposizionare l’intervento pubblico di vigilanza, che dovrebbe poter essere preventivo, prima ancora che di controllo successivo e repressivo. Ma anche ridare dignità alle persone che lavorano, non dimenticando le tante sofferenze – spesso «sommerse» – dovute alle malattie di origine professionale.
Gli aridi numeri ci dicono che i Dipartimenti di Prevenzione sono stati depauperati (che fine ha fatto il 5% di spesa dedicata?), che ben oltre il 90% delle imprese italiane ha meno di 10 addetti, che sono gli immigrati e i precari a rischiare di più la loro integrità e la loro vita, che il tasso infortunistico delle donne è cresciuto più del tasso di occupazione, che l’Inail è in attivo mentre le rendite per gli infortunati necessitano di revisione al rialzo, che spesso gli infortuni mortali avvengono nel primo (?) giorno di lavoro, che le mansioni più pericolose sono esternalizzate in infinite catene di subappalto, che le denunce di malattie professionali sono bassissime, che le imprese – soprattutto le piccolissime – hanno scarsissima probabilità di essere visitate da un ispettore, che raramente le istituzioni si coordinano, che le imprese esternalizzano molti costi del loro modo di produrre. E’ quindi necessario, urgente, intervenire su molti versanti.
Più che i necessari ma parziali interventi solo per alcuni settori produttivi, chiediamo un Piano nazionale, articolato nelle Regioni, di prevenzione e promozione della salute e sicurezza nel lavoro. Per questo chiediamo al Governo un’azione coordinata, predisposta sulla base di un confronto serrato con chi rappresenta le lavoratrici e i lavoratori, il sindacato. E con il coinvolgimento dei datori di lavoro, cui va imposta l’assunzione piena delle loro responsabilità. Siamo stufi di piangere i nostri compagni di lavoro, vogliamo essere sicuri di tornare tutti e tutte a casa integri la sera. E non è troppo esigere da un Governo di centro-sinistra che questo diventi priorità del proprio agire, magari senza aspettare ulteriori morti, mobilitazioni, scioperi.
*Segreteria nazionale Cgil