Provate a immaginare un futuro prossimo in cui i tre segretari generali di Cgil, Cisl e Uil aderiscano a un partito unico, battezzato con un nome d’oltre Atlantico: il Partito democratico. C’è chi pensa che la semplificazione della politica, magari anche del movimento sindacale, e perché no della cooperazione, sia l’unica prospettiva possibile e chi, al contrario, vive questo scenario come un incubo. Finora, né Epifani, né Bonanni, né Angeletti hanno annunciato la propria adesione al partito che (forse) sarà, anche se il segretario della Cisl ha già fatto sapere che vorrebbe come segretario Dario Franceschini. Tutti però ne parlano, e aspettano l’eventuale d-day. Come cambia il sindacato in un’ipotesi di questo tipo? Ne discutiamo anche noi, con i segretari di importanti categorie della Cgil: domani pubblicheremo l’intervista a Franco Chiriaco, segretario generale della Flai. Oggi diamo la parola al segretario generale della Fiom, Gianni Rinaldini, 57 anni, iscritto al Pci sedicenne, in tempo per votare contro la radiazione del manifesto, poi il Pds, quindi i Ds. Ma la continuità finisce qui, anche perché il Pd «è una scelta di rottura, pur rappresentando la conclusione di un lungo processo».
In che modo la nascita del Partito democratico interessa la vita della Cgil? La scelta dell’autonomia – il ruolo di «cinghia di trasmissione del partito» fa parte del passato – dovrebbe garantirvi dai rischi maggiori…
Siamo alla vigilia di un vero terremoto che porta alla ridefinizione del quadro politico. L’autonomia – e per quanto riguarda la Fiom, l’indipendenza, che abbiamo scelto al tempo del governo dell’Ulivo – è indispensabile, ma non sufficiente. Non è irrilevante ciò che avviene a livello politico e della sinistra in particolare. Con la nascita del Pd, la Cgil si troverebbe di fronte a una situazione inedita rispetto alla sua storia e questo vale per l’intero movimento sindacale. Dobbiamo trovare una nuova capacità progettuale e, insieme, ridefinire regole vincolanti. Penso alla democrazia come strumento principe per regolare il nostro rapporto con i lavoratori, cioè con i soggetti che vogliamo rappresentare. Penso dunque a una legge sulla rappresentanza.
Ma che c’entra questo con il Partito democratico?
Te lo spiego. Con la fine dei Ds e la nascita del Pd si completa un lungo processo in cui i lavoratori non rappresentano più il riferimento sociale per alcuna forza politica. In questo approdo, diverse espressioni politiche si materializzano in relazione a un unico soggetto: il cittadino, la persona. Questa è una rottura con gli aspetti fondativi, in base a cui in Europa nelle diverse versioni (laburista, socialdemocratica, comunista) è stata rappresentata la sinistra. Non c’è nulla di moderno nel Pd, che è lo scioglimento nella storia politica americana. Persino il nome viene dagli Usa.
Dunque, non aderirai al Partito democratico?
Non sono interessato alla formazione di un nuovo partito con le caratteristiche dette. Guarda che non uso la categoria del tradimento, sarebbe una sciocchezza. Penso invece che il Pd sia la deriva di un processo più profondo. Si è affermata su scala planetaria un’unica ideologia, un unico orizzonte: il mercato, in uno scenario liberista. Si nega persino la possibilità che esista un punto di vista alternativo all’idea egemone.
Era meglio quand’era peggio?
Non ho nostalgie per il passato. Ho condiviso la svolta di Occhetto, e la necessità di costruire una nuova sinistra , anche con elementi di rottura con la storia dell’espressione maggioritaria del movimento operaio. Ma oggi, con il Pd, non si tratta di costruire una nuova sinistra, si tratta di ben altro. Si dà per concluso, con il secolo che abbiamo alle spalle, il conflitto capitale-lavoro; meglio, si ritiene che quel conflitto sia stato un errore.
C’è il rapporto del futuro partito con i valori del movimento operaio e quello con i movimenti.
La strada non può essere quella della rappresentanza politica dei movimenti – che non la vogliono – bensì la scelta dell’interlocuzione, e del sostegno ai movimenti, con gli strumenti della politica e, soprattutto, della democrazia. Se non c’è questo – e se c’è, nelle intenzioni del Pd, io non lo vedo – l’approdo è ancora quello americano, caratterizzato dalla più assoluta separatezza tra politica e sociale che ammazza l’una e l’altro.
Non è proprio dalla svolta di Occhetto che inizia il processo che oggi ha il Pd come deriva?
Penso di no. Mi viene da dire che se la storia del Pci si è frantumata in mille rivoli, forse è proprio nella natura del Pci che se ne possono cercare le ragioni. Non voglio chiamare in causa Berlinguer, è già stato fatto a sproposito dal segretario dei Ds, ma forse, se quando fu operata la scelta del compromesso storico si fosse invece praticata una rottura con l’Urss e lavorato all’unità della sinistra in chiave antidemocristiana, le cose sarebbe andate diversamente. Ma con i se non si va da nessuna parte, e la storia non si analizza per battute.
Dunque, non aderisci al Pd. Sostieni allora la battaglia condotta dalla minoranza che fa riferimento a Mussi e Salvi?
Certo, la condivido senza nascondermi che si apre un problema enorme: o nella ridefinizione dell’assetto politico emerge la volontà di costruire un nuovo soggetto politico di sinistra, oppure si cade nella deriva della frammentazione, di cui la nostra sinistra è maestra: una molteplicità di organizzazioni in competizione per strapparsi lo 0,3% dei consensi, come avviene in Francia, e insieme non incidono su nulla, salvo riprodurre un’entusiastica discussione chi è il vero depositario dell’ortodossia del pensiero marxista-leninista, o magari trotzkista. Una nuova sinistra che conti e abbia una rappresentanza reale deve rimettere al centro, rivisitati nella situazione attuale, i valori fondativi: libertà e uguaglianza nella democrazia. Sono aspetti inscindibili, perché qualsiasi processo di trasformazione sociale non può che essere concepito come processo di liberazione. Quella fatta dai tedeschi di chiamare il nuovo partito «la sinistra» è la scelta giusta, costringe a interrogarsi sull’identità, a chiedersi cosa voglia dire oggi sinistra senza martoriarsi sul vetusto interrogativo se essa debba essere socialista o comunista.
Come si dovrebbe attrezzare la Cgil in questa nuova stagione?
Riaffermando l’autonomia, ma rilanciando il suo ruolo, ripensandosi come soggetto politico con una sua progettualità con cui confrontarsi con le forze politiche. Altrimenti c’è il rischio che i processi politici si riversino sulla Cgil nelle forme peggiori. Va ripresa e sviluppata la discussione sulla scelta, che dobbiamo a Bruno Trentin, di superare le correnti partitiche in una situazione inedita per la Cgil.
E quali sarebbero le ricadute peggiori?
La costruzione della corrente del Partito democratico, a tutti i livelli dell’organizzazione. Nella logica che porta alla nascita del Pd c’è il superamento delle divisioni storiche del ’48, per cui non esisterebbero più le ragioni e le condizioni della sopravvivenza di diverse organizzazioni sindacali. E magari di diverse organizzazioni cooperative.