Troviamo interessante e utile la polemica che si è sviluppata su queste pagine tra Rina Gagliardi e Marco Revelli. I temi dibattuti sono importanti, persino centrali nella cultura di una forza politica che si propone di interpretare i conflitti in questa fase storica e di rappresentarne le potenzialità progressive. Non per caso molti tra gli argomenti in questione sono stati oggetto di confronti tra noi nel corso di questi anni. Per tale ragione vogliamo intervenire in questa discussione. Che ci coinvolge e ci stimola.
Cominciamo dall’articolo di Gagliardi sull’«antipolitica di sinistra». Lo condividiamo in larga misura. Troviamo corretta in particolare la critica all’intransigentismo di chi difende ad oltranza la purezza dei propri principi e rifiuta di misurarsi con la ricerca di mediazioni e compromessi. Come Gagliardi opportunamente osserva, tale atteggiamento sfocia nella teoria della incomunicabilità tra istituzioni e movimenti, poiché la partecipazione a istanze di movimento consente – grazie alla loro informalità e fintantoché non si tratta di assumere decisioni – l’affermazione di principi e obiettivi non negoziabili («senza se e senza ma»), mentre la sfera istituzionale (che siamo soliti identificare, riduttivamente, con il terreno della politica) impone la costruzione di alleanze e quindi la pratica della mediazione. Potremmo aggiungere che l’intransigentismo conduce a una singolare contraddizione. La propensione ad assolutizzare i principi e i valori comporta l’indifferenza per i risultati delle proprie scelte. Fiat iustitia, pereat mundus, dicevano i latini: il mondo può anche andare in rovina, l’importante è che sia fatta giustizia. Senonché proprio questa indifferenza per le conseguenze delle proprie scelte legittima seri dubbi sulla qualità di quelle opzioni morali. Chi abbraccia un valore dovrebbe avere a cuore soprattutto che esso si realizzi, sia pure parzialmente e imperfettamente; chi fa proprio un principio, dovrebbe battersi per la sua (sia pur graduale) attuazione, ben più che per la sua astratta proclamazione. Da questo punto di vista, l’intransigentismo criticato dalla compagna Gagliardi si rivela non solo impolitico, ma anche incoerente. Nella misura in cui spinge a diffidare delle mediazioni e a disprezzarle come cedimenti, rinuncia a incidere positivamente sulla realtà. E mostra così di attribuire ben poco valore a quei principi nel nome dei quali si dichiara, a parole, pronto a tutto.
La compagna Gagliardi ha dunque ragione nella sua critica dell’ideologia della separatezza. E fa bene a denunciare la deriva antipolitica e individualistica di una prospettiva che condanna la politica (e con essa, naturalmente, i partiti) quale terreno di perdizione (di insincerità, di ipocrisia, di mercimonio) contrapposto ad una «società civile» trasfigurata come luogo di spontaneità, di verità e di trasparenza. Tutto giusto. E varrebbe la pena di approfondire queste riflessioni per cogliere i nessi che legano alla cultura liberale (imperniata sulla delegittimazione delle pretese dello Stato di interferire nelle relazioni tra gli attori economici) la diffidenza nei confronti della politica e l’apologia del «sociale» che la sottende. Ma c’è un ma. Abbiamo l’impressione che molte giuste osservazioni di Gagliardi tradiscano un difetto di autoconsapevolezza. Gagliardi vede i limiti di un modo di pensare e li denuncia. Ma nel far questo proietta fuori di sé (oggi si direbbe: esternalizza) contraddizioni che potrebbe rintracciare anche nelle proprie scelte politiche e nei propri riferimenti culturali. Così non fa torto soltanto a Marco Revelli, al quale attribuisce evoluzioni (o involuzioni) inesistenti. Tutto si può dire, ma non che in questi ultimi dieci-quindici anni (a partire dalla metà degli anni Novanta) Revelli non sia stato conseguente nel sostenere le proprie idee. La compagna Gagliardi fa torto – a nostro giudizio – anche a se stessa, poiché perde l’occasione di fare i conti con un pezzo della propria vicenda politica, una vicenda che ci riguarda da vicino, perché si intreccia con quella del nostro partito e del dibattito culturale e politico che l’ha attraversato nel corso del tempo.
L’idea che la politica sia «perduta» – estraniata, irretita nella gabbia burocratica, irrimediabilmente malata di autoreferenzialità – è facilmente rintracciabile in tutti i libri che Revelli ha scritto nel decennio scorso. La teoria dell’«esodo», che ne consegue e che la compagna Gagliardi scopre nella filigrana delle ultime prese di posizione di Revelli, è enunciata a chiare lettere nelle pagine che, già nel 1996, prospettavano una rappresentazione idilliaca del «terzo settore». Lo stesso vale per la condanna dei partiti, considerati morti apparati burocratici. Queste idee costituiscono il fulcro intorno al quale si organizza una coerente apologia della «società civile», concepita come incontaminata culla della «sinistra sociale». Il fatto è che queste stesse idee sono state a lungo sostenute anche nel nostro partito. Hanno costituito il contrappunto ideologico di un certo movimentismo, propenso a sminuire il ruolo del partito e a sottovalutare la rilevanza delle dinamiche istituzionali. Negli anni a cavallo del passaggio di decennio (più precisamente, tra il ’98 e il 2003) hanno strutturato analisi e ispirato scelte politiche. E hanno animato anche il nostro dibattito interno, determinando un forte contrasto con quanti le criticavano avanzando dubbi sulla reale natura delle cosiddette reti di solidarietà (attraverso le quali si è operato un gigantesco processo di privatizzazione dei sistemi di welfare) e sostenendo l’importanza anche della sfera politico-istituzionale a sostegno di quelle lotte che lo spirito del tempo suggeriva di riservare alle sole dinamiche di movimento.
Ci sbagliamo? La memoria ci inganna? Non lo crediamo. Ricordiamo bene come ancora pochi anni fa prevalessero tra noi una rappresentazione sommaria della sfera politica e l’idea secondo cui tra centrodestra e centrosinistra non sussisterebbero nemmeno le pur tenui differenze che in realtà li distinguono per ciò che attiene ai temi cruciali dell’agenda politica: la concezione della democrazia, le crisi internazionali, la globalizzazione, il modello economico. Questa presunta identità induceva molti a riconoscersi nelle posizioni di Luca Casarini (che oggi la compagna Gagliardi ripudia) e sorreggeva la teoria dell’«esaurimento dei margini di riformismo» che ha ispirato la linea del partito a cavallo del V congresso nazionale, nelle cui tesi non per caso si affermava l’impossibilità di «riformare» la «globalizzazione neoliberista» e persino di «temperarne» gli effetti. Poi, come sappiamo, le cose sono cambiate. Non nella realtà. La globalizzazione non si è addolcita, tutt’altro. La violenza contro il lavoro, il massacro dei diritti sociali, i processi di privatizzazione, le guerre si sono semmai intensificati. È cambiata, secondo noi in meglio, la nostra posizione. Tra l’estate e l’autunno del 2003 siamo usciti dall’isolamento politico, resistendo alle seduzioni del purismo moralistico. Abbiamo aperto la stagione del confronto con le forze democratiche e con la sinistra moderata. Abbiamo ricominciato a tessere la tela della politica. Sfrangiata, impura, insoddisfacente. Ma indispensabile se si vuole contribuire a cambiare le cose. La critica che oggi ci permettiamo di fare, semmai, è che siamo passati da un estremo all’altro e cioè dalla sostanziale equiparazione tra centrodestra e centrosinistra e dalla individuazione dei disobbedienti come parte più vicina e interessante dei movimenti ad una riduzione del profilo critico ed autonomo del partito con il conseguente rischio di subalternità rispetto alle forze moderate dell’Unione. Se le cose stanno così, sarebbe molto utile fare un bilancio di questi cambiamenti. E questa discussione con Marco Revelli ci pare l’occasione giusta. Non ha molto senso e non è nemmeno granché onesto prendersela con chi ha sempre detto quel che pensa solo perché nel frattempo si è cambiata idea sul da farsi e su come farlo. Revelli ha pienamente ragione quando scrive che per anni e decenni sono stati dichiarati “non negoziabili” valori e principi che oggi vengono (aggiungiamo noi: necessariamente) posti in tensione con istanze diverse e talvolta contrapposte. Non è serio né opportuno negarlo. Molto più utile sarebbe aprire una discussione franca e serena tra noi, per riconsiderare la strada percorsa insieme in questi anni. Per le persone come per i soggetti collettivi vale la regola che dalle esperienze si impara solo se si ha la forza di riconsiderarle criticamente. Non rigettando fuori di sé errori e contraddizioni, ma guardandoli in faccia, comprendendoli nelle loro radici, metabolizzandone gli insegnamenti.