Rigoni Stern, un antidoto contro la guerra

Perché la guerra, perché esiste, perché sembra essere così inevitabilmente legata alla condizione umana? E soprattutto come può essere raccontata mantenendo la pretesa di insegnare qualcosa con «dignità umana e consapevolezza»? Sono questi gli interrogativi drammatici ed accorati che Folco Portinari, già docente di letteratura italiana all’Università di Torino e critico letterario di grande valore, si pone nella sua bella prefazione di I racconti di guerra (pp. 616, euro 15,80), una selezione dei migliori scritti di Mario Rigoni Stern uscita recentemente per Einaudi. Nella prima parte della sua riflessione Portinari si sofferma sul fenomeno bellico. Il suo essere condizione necessaria per poter instaurare la pace, come sostenevano Tucidite, Orazio e, saltando svariati secoli, George Washington. O «un fenomeno naturale per negativo che sia e che si giustifica in sé», come scrive Portinari ricordando l’Iliade, i Sumeri ma anche Clausewitz quando dice che la guerra «altro non è se non il proseguimento della politica con altri mezzi.» Considerazioni che non danno risposta agli interrogativi di Portinari, né la danno le riflessioni che Giacomo Leopardi e Machiavelli fanno sulla mutata natura dell’uomo che lo avrebbe inevitabilmente portato ad accettare la guerra prima che – dice lo studioso – si incrinasse «il patto, perché questo è ciò che ci dicono essere accaduto, in uno scompenso radicale del rapporto di quiete all’interno della natura».
Interrogativi senza risposta dunque ma necessari per poter arrivare a descrivere le storie del Sergente nella neve, perché i suoi racconti, sottolinea Portinari, «tutti sovra o sottostanno argomentativamente a quel drammatico accidente.» E proprio nel modo con il quale lo scrittore di Asiago racconta la guerra sembra esserci l’antidoto contro il rinnovarsi dei fenomeni bellici, contro «i veleni di oggi», contro quella terza guerra mondiale iniziata, scrive Portinari, il 25 aprile 1945, data considerata erroneamente la fine del secondo conflitto mondiale. «La storia – sottolinea lo studioso – è fatta di nomi, di eroi, cioè di generali, di condottieri, di sovrani.» «Mi ritorna in mente – dice ancora il critico nonché amico di Rigoni Stern – una poesia di Bertold Brecht in cui il poeta dice che tutti conoscono i nomi dei faraoni, Cheope Chefren Micerino, ma nessuno sa neppure un nome degli schiavi che a migliaia morirono per alzare le piramidi.» Ma l’autore di Quota Albania e Storia di Tonle ha un’altra idea appunto della Storia e delle vicende umane e dunque anche inevitabilmente della guerra. Nei suoi racconti i protagonisti sono altri, sono i poveri militari italiani che si ritiravano dalla Russia, quelli che si chiedevano impauriti se sarebbero ritornati “a baita”, o quei «poveri civili russi che ci davano qualcosa da mangiare (…) senza che si chiedesse.» come racconta Rigoni, un popolo amico contro il quale i soldati italiani erano stati mandati da «una patria matrigna». Un «dare voce a chi non poteva più parlare», a chi subiva, e subisce ancora, le decisioni prese da altri, da quegli Stati Maggiori «simili tutti nella loro criminale stupidità.» Quella stupidità che emerge con forza in un altro testo importante che Portinari non può fare a meno di citare, quel Un anno sull’Altipiano di Emilio Lussu, tanto simile «per più di una ragione» agli scritti di Rigoni Stern, dove «i soldati della Sassari che salgono verso le trincee dell’Altipiano», dice il critico letterario, incontrano «i profughi», vero e proprio «convoglio del dolore» del tutto simile a quello militare, e dove, come nelle storie di Mario, la natura è protagonista ed emerge, con i suoi odori, i suoi suoni e le sue creature, tra un colpo d’arma da fuoco e un altro. Ed ecco infine il punto al quale vuole arrivare Folco Portinari. Nel suo scritto, a tratti, sembra trapelare l’impotenza di fronte ad un fenomeno, quello appunto della guerra, che appare in tutta la sua “inevitabilità”, come questi ultimi dieci-quindici anni di storia sembrano volerci ulteriormente confermare. E tuttavia lo scrittore può, e forse deve, avere un ruolo in questo contesto così negativo. Una tensione etica dunque, come quella che pervade l’opera di Mario Rigoni Stern, ponendolo «al di sopra della maggior parte dei narratori italiani, assieme ai suoi amici Levi e Revelli», un vero e proprio «discrimine di valore che dovrebbe accompagnarci nelle nostre letture.» Una posizione, quella di Portinari, forte, coraggiosa, addirittura anticonformista in una fase storica dove, anche in campo letterario, regnano l’effimero e la legge del mercato.