Riforme costituzionali, così si cancella il 1789

Il principio della divisione e dell’equilibrio dei poteri viene compromesso alla radice, quello stesso principio che la Rivoluzione francese inaugurò con la Dichiarazione dei diritti

Che cosa si può dire ancora sulla riforma costituzionale approvata dalle due Camere, dopo che i lettori di questo giornale e l’area d’opinione che fa capo alla sinistra e al centro democratico dovrebbero avere ormai fatto proprio lo scandalo e la preoccupazione per questo, davvero estremo, esempio di arroganza e di eversione da parte della maggioranza di destra?
Si può innanzi tutto tornare a segnalare le quattro grandi questioni sulle quali la riforma opera un’alterazione radicale della Costituzione e di ogni possibile equilibrio democratico.

Ecco la prima. Il punto di massima gravità – su questo è necessario insistere rettificando quanto si tenta ancora di far credere – è dato dalla concentrazione di potere nella maggioranza, anzi nel governo, anzi nel suo capo (il primo ministro), che praticamente viene a sopprimere la forma di governo parlamentare, sale di tutte le democrazie europee. L’elezione sostanzialmente diretta del primo ministro da parte del popolo, la sua nomina senza alternative da parte del Presidente della repubblica, la presentazione alla Camera dei deputati per esporle il programma senza bisogno del voto di fiducia, la disponibilità esclusiva che egli ha della nomina e della revoca dei ministri; ma, più ancora, la sua quasi totale insostituibilità ad opera della Camera, che può, sì, a certe condizioni votargli la sfiducia ma con l’effetto, normalmente, di provocare il proprio stesso scioglimento, la sua possibilità di porre la questione di fiducia sulle leggi che egli ritiene per lui essenziali sotto il ricatto, se non approvata, dello scioglimento della Camera, la sua possibilità di convocare quando vuole una nuova elezione della Camera senza il concorso di volontà del Presidente della repubblica: tutto ciò fa sì che il primo ministro sia padrone della vita e dell’attività della Camera, del governo come organo collegiale e della stessa maggioranza.

A tutto questo – e veniamo alla seconda questione – fa riscontro il depotenziamento di ogni garanzia delle minoranze e di ogni contrappeso. Il Presidente della repubblica, nominalmente riconfermato come garante del sistema, non lo è più, perché privato dei suoi poteri essenziali di concorrere con poteri di arbitrato alla nomina del governo e allo scioglimento del Parlamento. La sua elezione avverrà praticamente a discrezione della maggioranza parlamentare, così come la nomina dei presidenti dei due rami del parlamento, la nomina alla presidenza delle commmissioni (con qualche eccezione) e la decisione di costituzione delle commissioni di inchiesta; come pure non vi è possibilità di ricorso della minoranza alla Corte costituzionale né contro leggi incostituzionali né contro l’abusiva convalida da parte delle camere di parlamentari eletti in violazione delle norme di legge: senza che siano dunque migliorati, come sarebbe richiesto, ed era stato di fatto proposto, in un sistema elettorale maggioritario, i livelli delle garanzie. Neanche la maggioranza richiesta in parlamento per le leggi di revisione costituzionale è aumentata rispetto a quella attuale del cinquanta per cento più uno. Per di più la composizione della Corte costituzionale è alterata a vantaggio della componente di essa di derivazione parlamentare (sette giudici su quindici), mentre sono diminuite (a quattro ciascuna) le componenti di nomina presidenziale e giudiziaria.

Terza questione. Le regioni – se vedono diminuiti i loro poteri in alcune materie (sicurezza del lavoro, energia, reti nazionali di trasporto, professioni, comunicazione) nelle quali con la riforma del titolo V della Costituzione si era andati troppo oltre – li avranno aumentati, fino a divenire esclusivi, in tema di assistenza e organizzazione sanitaria e di organizzazione scolastica: con l’effetto di dissolvere l’unitarietà di due essenziali sistemi di servizio nazionale che mantengono rispettivamente (e si sa con quali difficoltà già oggi) l’eguaglianza del diritto fondamentale alla salute e la formazione della coscienza civile nazionale delle giovani generazioni.

E infine: il senato è trasformato, nominalmente, in un organo federale: ma si tratta di un imbroglio, perchè niente nella struttura e composizione di questa camera, eletta con un’elezione nazionale, assicura la rappresentanza effettiva delle regioni nelle decisioni parlamentari; mentre al nuovo senato si danno, con poca coerenza e importanti temperamenti a favore del governo, poteri esorbitanti sulle leggi che fissano i principi fondamentali in tema di potestà concorrente regionale.

La riforma è dunque gravissima, e a parte le incoerenze interne e i sicuri difetti di funzionalità dati dalla eccessiva complessità del sistema, compromette in radice la divisione ed equilibrio dei poteri che costituisce l’essenza dei sistemi democratici. Che cosa c’è di più chiaro se non che, in questo modo, vien meno una delle due caratteristiche che, fin dalla Dichiarazione dei diritti del 1789, identifica le moderne costituzioni liberali e democratiche? E l’altra componente – la garanzia dei diritti dell’uomo e del cittadino – non è forse simultaneamente messa a grave rischio, se è vero che quella garanzia riposa, non sulla mera proclamazione di essi, ma sull’operatività degli strumenti organizzativi che soli possono presidiarla?

Dunque, si può dire senza esagerare che la riforma abroga nel nostro paese duecento anni di sviluppi democratici in nome del dogma della maggioranza che può tutto, per cui la critica che essa instauri una forma di dittatura, o di tirannia, o di dispotismo è assolutamente veritiera.

Che fare di fronte a ciò? Poiché tutto lascia pensare che la maggioranza berlusconiana non demorderà dalla riapprovazione della riforma in seno alle camere sia pur solo alla fine della legislatura, non resta altra difesa, secondo l’art. 138 della Costituzione, che l’appello del corpo elettorale, della minoranza parlamentare e delle regioni dissenzienti al referendum oppositivo (non, come mal si dice, confermativo). Esso avrà verosimilmente luogo dopo le elezioni politiche del 2006, ma va fin d’ora preparato, e lo stanno cominciando a fare i vari comitati per la difesa della Costituzione (a partire da quelli che si richiamano a Dossetti) già costituiti in molte parti d’Italia e di recente coordinatisi nazionalmente. Non è presto per questo lavoro: una parte estesa del corpo elettorale non ha ancora capito il pericolo – che non riguarda l’attuale minoranza ma potenzialmente incombe quale che sia la maggioranza che governi – anche perché è stata in passato fuorviata dalla propaganda per cui il massimo problema italiano sarebbe, sebbene i comportamenti della presente maggioranza dimostrino bene che così non è, la scarsa robustezza dei poteri propri del governo.

E comunque l’importanza della posta in gioco è tale che non bisogna lasciar nulla al caso e che occorre premunirsi che una buona preparazione del dibattito pubblico garantisca con certezza il risultato e sappia ottenerlo in forma e misura così nette da attestare veramente la capacità del popolo italiano di difendere la democrazia.