Riforma Tfr. Gli effetti devastanti di lungo periodo

Sulla tanto discussa possibilità di trasferire una parte del Tfr all’Inps si sta creando una pericolosa confusione. Sembrano non chiare le pur profonde differenze tra il provvedimento inserito nella Finanziaria (il 50% del flusso di Tfr non destinato alla previdenza complementare verrebbe obbligatoriamente trasferito in un fondo istituito presso la Tesoreria dello Stato, mentre l’Inps si limiterebbe a gestirlo) e la proposta presente nel Programma dell’Unione, sostenuta dalle forze della sinistra e illustrata da chi scrive anche su queste pagine. In particolare, sono poco percepiti i preoccupanti effetti più di lungo periodo che deriverebbero dall’approvazione del testo di legge portato in Parlamento.
La proposta a suo tempo inserita nel Programma e tuttora sostenuta dalla sinistra mira a perseguire due obiettivi da tutti riconosciuti come prioritari: attenuare il forte calo della copertura pensionistica che si prospetta per i prossimi anni e, allo stesso tempo, non penalizzare, ma anzi migliorare il bilancio pubblico.
Prima di entrare nel merito, è utile ricordare che le riforme previdenziali degli anni ’90 hanno determinato miglioramenti finanziari superiori a quelli prefissati; ma proprio per questo, hanno drasticamente ridotto la copertura pensionistica pubblica: il rapporto tra la prima pensione e l’ultima retribuzione che si stabilizzerà nel nuovo assetto sarà inferiore tra i 20 e i 30 punti percentuali rispetto a quello che si aveva nel sistema retributivo. Il tasso di sostituzione per un lavoratore dipendente che va in pensione a 60 anni con 35 di anzianità contributiva, sarà inferiore al 50%; per un lavoratore parasubordinato nelle stesse condizioni sarà inferiore a 30%.
La proposta presente già nel Programma prende le mosse dalla considerazione che i lavoratori dipendenti, per aumentare la loro copertura pensionistica, dispongono di un flusso di risorse (gli accantonamenti per il Tfr, i contributi aziendali a fini previdenziali integrativi, i connessi sussidi fiscali) pari circa il 10% del costo del lavoro. Attualmente, però, ai lavoratori è consentito di scegliere solo tra lasciare gli accantonamenti presso le rispettive aziende o impiegare quel flusso di risorse nella previdenza privata a capitalizzazione. Ciò che si propone è riconoscere ai lavoratori una più libera ed estesa facoltà di scelta nell’impiego di quelle loro disponibilità, consentendo di utilizzarne una parte a piacere per aumentare la contribuzione al sistema pensionistico pubblico. Il risultato sarebbe duplice. Se i lavoratori in media decidessero di impiegare la metà di quelle risorse (l’altra metà sarebbe liberamente ripartita tra le aziende e i fondi pensione) per incrementare la loro posizione contributiva, i tassi di sostituzione aumenterebbero mediamente di circa dieci punti percentuali. Contemporaneamente, il maggior flusso contributivo sarebbe pari a circa un punto percentuale di Pil; il corrispondente miglioramento di bilancio persisterebbe a questo livello per circa dieci anni, per poi ridursi progressivamente con il graduale aumento delle prestazioni.
Nonostante i due consistenti risultati, questa proposta non ha (finora) trovato accoglienza nella Finanziaria. Invece, il provvedimento deciso dal Governo – che opera in modo costrittivo sui lavoratori e sulle imprese – lascia preclusa la possibilità di aumentare le prestazioni pensionistiche del sistema pubblico e ci sono anche fondati dubbi che Bruxelles possa accettare le entrate nel nuovo fondo della Tesoreria ai fini dell’abbassamento sotto il 3% del disavanzo pubblico. Infatti, nel bilancio pubblico, oltre alle nuove entrate (previste pari a 5,3 miliardi di euro), dovrebbe essere inserito anche il corrispondente debito assunto verso i lavoratori (la quota di trattamento di fine rapporto a carico della Tesoreria anziché delle imprese). Con l’altra proposta, invece, le maggiori contribuzioni costituirebbero a tutti gli effetti un aumento delle entrate, senza creare nuove poste passive nel bilancio pubblico; infatti, essendo il bilancio previdenziale gestito a ripartizione, le maggiori prestazioni pensionistiche future saranno finanziate con le maggiori entrate contemporanee.
La conseguenza di lungo periodo e più preoccupante del provvedimento in Finanziaria è che la parte di Tfr acquisita dalla Tesoreria sarà sottratta alle imprese e verrà pure definitivamente esclusa dalla possibilità di finanziare in qualsiasi modo aumenti della copertura pensionistica.
L’aumento delle pensioni rimarrà praticabile solo rivolgendosi alla previdenza a capitalizzazione. Ma se questo canale divenisse cospicuo s’incorrerebbe in altri consistenti effetti negativi. Una quota significativa della copertura pensionistica diventerebbe molto più incerta come lo sono i rendimenti dei mercati finanziari i quali male si adattano a soddisfare le esigenze di previdenza e sicurezza sociale. La previdenza a capitalizzazione può opportunamente fornire – a chi ha i mezzi per finanziarla e può permettersi di rischiare – una copertura integrativa, ovvero aggiuntiva; ma non è affatto auspicabile che essa sia sostitutiva rispetto alla copertura che il sistema pubblico con minori costi e maggiore sicurezza può assicurare alla generalità dei lavoratori.
Non da ultimo, va tenuto presente che già oggi, a causa della struttura dimensionale e proprietaria del nostro sistema produttivo, i fondi pensione investono una parte trascurabile (il 2,3%) delle loro entrate in azioni italiane, mentre ben il 77% è allocato all’estero. Un elevata e rapida crescita dei fondi pensione che trasferisse loro una quota elevata del Tfr farebbe aumentare in modo esponenziale il flusso di risparmio nazionale dirottato verso il finanziamento dei sistemi produttivi nostri concorrenti, penalizzando la ripresa. E’ fortemente auspicabile che nel dibattito sulla Finanziaria la Maggioranza rivaluti la proposta già inclusa nel suo Programma.