Riforma elettorale, una voce fuori dal coro

Il centrosinistra si è limitato a difendere il Mattarellum. La minaccia vera sta nell’aver rimesso in gioco i partiti

Non è bella la piega che, sin dall’inizio, ha preso a sinistra la discussione
sulla riforma elettorale promossa dalla Casa delle Libertà. Invece di
entrare nel merito del progetto e di limitarsi a contrastarne gli eventuali intenti truffaldini, si è scelto di attestarsi su una sua critica tutta ideologica che, di fatto, finisce per attestarsi sulla difesa acritica del sistema esistente (il Mattarellum). In questa maniera ci si è preclusa, tra l’altro, la possibilità di migliorare o limitare i danni e le distorsioni che la riforma può provocare in vista dell’imminente resa dei conti elettorale. L’intransigenza imposta su questo tema a tutta l’Unione dal suo leader si spiega, ovviamente, con lo schema secondo cui qualsiasi trattativa con gli avversari rappresenterebbe di per sé un “inciucio”. Essa preclude quindi la possibilità di agire sulle loro contraddizioni, con il risultato di rafforzare la leadership di Berlusconi. Ma non è tanto qui l’aspetto ideologico dell’arroccamento contro la riforma.
E non sta nemmeno nel rifiuto pregiudiziale del proporzionalismo, che pure è affiorato in molte prese di posizione. Anche perché – qui c?è una
mistificazione grave – la nuova legge elettorale non è affatto “proporzionale”, dal momento che la sua logica e i suoi effetti sono piuttosto segnati dal premio di maggioranza.
Certo, la base del meccanismo (per il calcolo) è proporzionale, tant’è vero che – come dimostrano le simulazioni (ce n’è una seria del servizio studi della Camera) – i suoi effetti nella distribuzione dei seggi saranno più equilibrati territorialmente, pur senza stravolgere il risultato
complessivo. Ma questo non è necessariamente un male (anzi), e comunque non è il problema che ha provocato la sollevazione dell’Unione.
Quel che di questa riforma ha fatto andare in bestia il centro sinistra
(tutto intero, tranne pochissime eccezioni) è il ritorno allo scrutinio di lista. Cioè il fatto che essa rimette in corsa, in qualche maniera, i partiti. Ecco il vero delitto! Infatti abbiamo sentito dire e ripetere fino alla noia che i deputati e i senatori verranno a questo punto scelti “non dagli elettori ma dai partiti”, anzi dalle solite famigerate segreterie dei partiti.
Qualcuno se l’è presa più che altro con le liste bloccate, come se dovessimo rimpiangere il vecchio voto di preferenza. La scelta delle liste bloccate a me invece pare saggia, se si vuole evitare quella sindrome della corsa alle preferenze che imperversò alla fine della prima repubblica e a cui si cercò di porre un limite con il primo dei referendum elettorali. Del resto, non è frutto di un caso se questo accorgimento si accompagna piuttosto frequentemente allo scrutinio di lista proporzionale (vedi ad esempio, in Europa, i casi dell’Olanda, della Norvegia, della Germania, della Spagna e del Portogallo).
Comunque, a parte i dettagli, si direbbe sia stato il principio stesso del
voto per liste di partito a spiazzare il centro sinistra e a provocarne
quell’indignazione di principio che non si era mai riscontrata prima, nemmeno su temi come le pensioni, la legge 30, la guerra all’Iraq, i condoni ecc. Ma il massimo dell’ipocrisia è stato raggiunto quando si è cercato di accreditare l’idea che, dal punto di vista della libertà di scelta (o addirittura della “sovranità”) dell’elettore, lo scrutinio di lista costituirebbe un peggioramento rispetto alla situazione attuale. E parlo di ipocrisia perché i dirigenti dell’Unione non possono fingere di ignorare che la verità è esattamente opposta. Chiunque abbia un po’ di familiarità con la politica elettorale degli ultimi dieci anni dovrebbe sapere benissimo qual è la piega che ha preso con l’uninominale la procedura per la scelta dei candidati. Fra tavoli inter-partitici e nuovi “manuali Cencelli”, questa è diventata oggetto di decisioni discrezionali e prerogativa di istanze informali (leader, notabili, lobbies), di modo che sono stati esclusi dalla procedura proprio quei soggetti e quegli organismi a cui potrebbe essere assegnata una qualche responsabilità democratica. Il che, visto che dei collegi uninominali si conoscono in anticipo le chance di vittoria (collegi blindati e marginali), vuol dire che pochissime persone (i leader e i loro stretti collaboratori) assegnano preventivamente e di fatto a loro piacimento non le candidature ma gli stessi seggi, riuscendo ovviamente a favorire i propri seguaci e clienti e a penalizzare invece le altre tendenze e istanze presenti all’interno del partito.
E’ chiaro che tutto questo potrebbe essere evitato con le liste di partito, in cui la decisione sulle candidature si presta a procedure più democratiche e collegiali. Si capisce allora perché esse non piacciano ai leader di partito.
Certo, le procedure, per quanto democratiche, vanno sempre messe in
relazione con le organizzazioni partitiche esistenti, che sono state devastate da dieci anni di uninominale, dopo essere già state ampiamente destrutturate dal collasso del sistema partitico dell’inizio degli anni novanta. Ma bisognerebbe pur cercare, prima o poi, qualche via di uscita dal circolo vizioso in cui si avvita il nostro sistema partitico. Soprattutto a sinistra, lo spirito anti-partitico degli anni novanta ha sedimentato una sfiducia così profonda verso questo strumento di rappresentanza collettiva da ritenerli definitivamente irriformabili, né democratizzabili. Di qui la tendenza continua e ripetuta a depotenziarli e accantonarli, che si traduce nella ridislocazione delle loro funzioni a istanze leaderistiche e personalistiche e a meccanismi direttivi che riducono i partiti a puri strumenti privi di vita e di anima. Si spiega allora perché una riforma elettorale che, con tutti i suoi difetti, rimette in campo i partiti, limitando il ruolo dei candidati, venga percepita come una minaccia da un centro sinistra che da anni ha scelto di investire solo su leader e coalizioni. A questo punto ci si aspetterebbe che la sfida della riforma diventi occasione per riprendere un filo organizzativo di cui non si potrebbe fare a meno se si volessero ricostruire seriamente identità e legami rappresentativi con la società che insieme con i vecchi partiti sono andati perduti in questi anni. Ma purtroppo, se penso al modo in cui si sta discutendo del progetto del partito democratico, non mi sembra che per ora i fatti lascino molte ragioni di ottimismo.

*Professore di Scienza della Politica