Riforma Dini e coefficienti, la via fiscale per non penalizzare i pensionati

Nel dibattito che si sta riaprendo, mentre l’applicazione del silenzio-assenzo e le scelte tra Tfr e fondi pensione vanno quasi sotto silenzio, c’è molta attenzione sui coefficienti di trasformazione la cui valenza, però, rischia di essere fraintesa e strumentalizzata.
I coefficienti di trasformazione sono quei parametri del sistema contributivo introdotto con la riforma Dini del 1995 che nel calcolo delle pensioni tengono conto della speranza di vita attesa al momento del pensionamento. Il loro adeguamento periodico è parte integrante della logica attuariale del sistema contributivo ed era previsto che per la prima vota avvenisse dopo dieci anni dal varo della riforma, quindi già nel 2005. L’allungamento della vita attesa intervenuto nel decennio considerato richiederebbe una riduzione dei coefficienti – e dunque delle prestazioni pensionistiche calcolate con il sistema contributivo – tra il 6 e l’8%, a seconda delle varie possibili età di pensionamento.
Valutare l’opportunità di adeguare i coefficienti solo sui vincoli attuariali sarebbe un ragionamento parziale e nient’affatto neutrale. Infatti, il loro adeguamento coinvolge altri aspetti economici – in primo luogo di carattere distributivo – che non possono essere elusi, confusi e costretti nella logica attuariale.
Un indicatore economico di particolare rilievo è il rapporto tra la spesa pensionistica e il Pil. Esso dipende dal rapporto tra numero di pensionati e numero di lavoratori e dal rapporto tra pensione media e retribuzione media. Se – come sta avvenendo – le tendenze demografiche spingono in alto il rapporto tra pensionati e lavoratori, la compensazione può essere ricercata in due modi (o loro combinazioni): 1) riducendo di altrettanto il rapporto tra pensione media e retribuzione media; 2) accettando che la quota di Pil trasferita all’insieme dei pensionati aumenti corrispondentemente. La questione da tener presente, è che a ciascuna delle soluzioni corrisponde una scelta distributiva , con le relative conseguenze sociali e politiche.
Nella prima soluzione la scelta distributiva accolla interamente ai singoli pensionati il riaggiustamento dell’effetto demografico, creando una cesura intergenerazionale. Nella seconda, invece, la distanza tra i redditi medi da lavoro e da pensione rimane intatta.
Ripercorrendo gli ultimi anni si può notare che nel 1992, quando fu abolita l’indicizzazione delle pensioni alla crescita reale delle retribuzioni, si fece una scelta nella direzione della prima soluzione. In particolare si stabilì che i frutti del progresso produttivo venissero divisi solo tra gli attivi, e non anche con i pensionati che pure lasciano ai giovani il capitale precedentemente accumulato.
Analogamente si operò nel 1995 con il passaggio dal retributivo al contributivo; infatti, la riduzione dei tassi di sostituzione che si ottenne fu motivata essenzialmente dalla necessità di compensare le tendenze demografiche in atto e di contenere i loro effetti sul rapporto tra spesa pensionistica e Pil.
E’ con motivazioni demografiche ed attuariali che furono introdotti i coefficienti di trasformazione variabili nel tempo. Va tuttavia sottolineato che l’equilibrio attuariale così perseguito non è neutrale sul piano distributivo, ma addossa ai pensionati l’onere derivante dall’aumentata aspettativa di vita.
Quando nel 1995 si passò dal sistema retributivo al contributivo, il nuovo metodo fu inizialmente «tarato» con l’obiettivo che, per un lavoratore dipendente in pensione a 62 anni con 37 di anzianità contributiva, il tasso di sostituzione rimanesse sostanzialmente uguale a quello che il sistema retributivo garantiva indipendentemente dall’età (circa il 62%, cioè la copertura offerta dopo i tagli di circa 10 punti già operati dalla riforma del 1992). Per età di pensionamento inferiori, la copertura era naturalmente più bassa.
Quell’obiettivo di copertura poteva essere raggiunto solo con i coefficienti di trasformazione fissati nel 1995. Considerando invece i loro valori adeguati nel tempo, i tassi di sostituzione si riducono sensibilmente.
Tornando al rapporto tra spesa pensionistica e Pil, le proiezioni nei prossimi 50 anni segnalano un andamento che inizialmente è in leggera crescita (fino a un massimo di circa 2 punti), per poi discendere a un valore simile a quello attuale. Fra mezzo secolo, dunque, l’insieme dei pensionati riceverà la stessa quota del Pil. Contemporaneamente però, il rapporto tra numero dei cittadini over 65 e dei cittadini in età lavorativa (tra i 15 e i 64 anni) sarà più che raddoppiato, passando dal 29% al 62%. Dunque, la compensazione avverrà sostanzialmente a carico del rapporto tra pensione media e retribuzione media cioè peggiorando nettamente la posizione distributiva dei pensionati. Un contributo significativo a questo risultato verrà appunto dall’adeguamento dei coefficienti di trasformazione e dal perseguimento dell’equilibrio attuariale cui l’adeguamento è finalizzato.
Chiarito che l’equilibrio attuariale non è neutrale rispetto all’equilibrio economico, vanno anche sottolineati la funzione contabile dell’equilibrio attuariale e il suo possibile contributo alla trasparenza delle scelte economiche. Un sistema previdenziale in squilibrio attuariale implica effetti redistributivi che non dovrebbero essere ignorati, ma dovrebbero risultare da scelte della politica economica e della politica tout-court.
Tornando ai coefficienti di trasformazione, il dibattito non dovrebbe tanto concentrarsi sull’opportunità o meno del loro adeguamento quanto su chi ne deve sostenere l’onere, rispettando tuttavia il principio della separazione tra assistenza e previdenza e l’esigenza di trasparenza distributiva che esso persegue. Se si ritiene di non abbandonare il metodo di calcolo contributivo (da molti accettato senza un’adeguata consapevolezza delle sue caratteristiche e conseguenze), poiché i coefficienti e il loro adeguamento sono parte integrante di tale metodo, la scelta di non procedere a un ulteriore e insostenibile redistribuzione sfavorevole ai pensionati (che sono ex lavoratori) andrebbe perseguita fiscalizzando le conseguenze finanziarie dell’adeguamento dei coefficienti.
Rispetto ai più generali equilibri economici e sociali, se cresce la quota degli anziani sulla popolazione dovrebbe risultare fisiologico un certo aumento della loro complessiva partecipazione al Pil, indipendentemente dall’equilibrio attuariale.
Anche rispetto alla logica attuariale – prima di procedere alle misure di fiscalizzazione – l’adeguamento dei coefficienti non dovrebbe essere indifferenziato, ma andrebbe commisurato alla specifica entità della vita attesa dalle diverse categorie di lavoratori. Andrebbe cioè evitato un uso approssimativo dell’equilibrio attuariale con cui si penalizzano le categorie che al momento della pensione hanno un’aspettativa di vita inferiore alla media non per motivi casuali, ma come conseguenza prevedibile e misurabile del maggior logoramento fisico che caratterizza il loro contributo alla ricchezza collettiva.