Ormai nel Palazzo è una tesi che fa scuola, un dato scontato che condiziona le mosse dei protagonisti: Rifondazione non fa più paura. Tutti sono convinti – più a ragione che a torto – che Fausto Bertinotti e i suoi non faranno cadere il governo Prodi né sul welfare, né sull’Afghanistan, né su altro. «I neo-comunisti sono dei poveri cristi – spiegava ieri nel Transatlantico di Montecitorio Tiziano Treu, esponente del Pd che sulle politiche sociali è agli antipodi dei neo-comunisti – sono sderenati. Il governo ha più paura di Dini. Loro si attardano sulle battaglie di principio, ma non vanno da nessuna parte…». La pensa allo stesso modo anche Angelo Bonelli, presidente dei deputati verdi, che è anche un amico dei rifondaroli. «Sono all’angolo – osserva -. Intanto perché sono a corto di consensi. Pagnoncelli li dà al 4,6%. Poi sono bloccati dalla sindrome del ’98. Bertinotti non farà mai cadere Prodi, mentre Giordano è in difficoltà dentro il partito. In più alzano sempre il tiro ma alla fine non incassano nulla. E questo è un boomerang per loro. Stanno dimostrando che il domino della situazione è Dini». Un ragionamento che condivide anche la stampa comunista, quella più vicina a Bertinotti e compagni. La settimana scorsa c’è chi ha potuto ascoltare in bassa frequenza, in una pausa della trasmissione Omnibus, il direttore del Manifesto, Gabriele Polo, dire più o meno le stesse cose: «Il loro elettorato li lincerebbe ma quelli di Rifondazione non mollano il governo. Quando mai Bertinotti potrebbe tornare a fare il Presidente della Camera?».
Appunto, c’è il rischio che i «neocomunisti» diventino i nuovi «signor sì». Eppure malgrado questa legge non scritta che sembra regolare la XV legislatura, ogni volta si assiste alla stessa liturgia: Rifondazione pone questioni, alza barricate, organizza manifestazioni come quella del 20 ottobre, lancia avvertimenti che poi si risolvono nel nulla. E qualche volta tanta impotenza dà vita a dei paradossi. Come sul welfare: il Consiglio dei ministri licenzia una legge che ricalca il protocollo firmato da Confindustria e sindacati; alla Camera i neo-comunisti riescono ad introdurre delle modifiche in commissione; ma alla fine, a quanto pare, il governo potrebbe porre la fiducia su un testo che ricalca il testo originale. «Se Rifondazione rompe – è il commento laconico del sottosegretario alla presidenza, Enrico Letta -: pazienza». Il tutto sotto il controllo del nuovo giudice inappellabile di questa maggioranza, Lamberto Dini.
Un epilogo che se si avverasse, com’è probabile, lo stato maggiore di Rifondazione difficilmente potrà contrabbandare come un successo con la sua base elettorale di riferimento. Né la sceneggiata di queste ore potrà cambiare il sapore di questo nuovo boccone amaro che i neo-comunisti si apprestano ad ingoiare. A conti fatti, se la partita si chiuderà in questo modo, Dini farà la parte dell’asso pigliatutto, qualcosa otterranno anche i socialisti di Gavino Angius, magari un’indennità di disoccupazione per i co.co.pro (contratti a progetto), mentre Rifondazione niente o quasi. Al massimo Bertinotti e i suoi continueranno a gridare alla luna. Il presidente della Camera ironizzerà sui «brodini» per il governo. Il segretario Franco Giordano se la prenderà contro «l’ipoteca della Confindustria sul governo». Il leader dei «no-global» Francesco Caruso chiederà ancora di votare contro la fiducia a Prodi. Alberto Burgio parlerà di «forzatura inaccettabile». E, magari, Valentino Parlato sulle colonne del Manifesto tornerà a sperare nel ritorno del Cavaliere.
Già, siamo arrivati a questo punto. «La verità – ammette il capogruppo dei senatori, Russo Spena – è che non facciamo paura perchè siamo troppo buoni. Gli altri lanciano ultimatum, fanno ricatti, mentre noi siamo legati ad una linea strategica che vuole evitare la caduta del governo. Per cui ogni volta che Prodi pone la fiducia il nostro gioco diventa stretto. Solo che i nostri alleati debbono sapere, come diceva Totò, che “ogni limite ha una pazienza”. Che Dini non può valere più di 150 parlamentari. Per cui se ci imporranno una soluzione che non condividiamo sul welfare, noi sui provvedimenti su cui non c’è la fiducia ci muoveremo con le mani libere. Ad esempio il decreto sull’espulsione dei romeni a me non piace proprio e nell’attuale versione non lo voterò. Eppoi non si aspettassero sconti sulla legge elettorale. Veltroni il suo “veltronellum” se lo può scordare. Dalle nostre simulazioni colpirebbe proprio i partiti che sono tra il 6 e il 10%. O il tedesco, o niente».
Torniamo, quindi, alle minacce, agli avvertimenti, alle insofferenze che spesso si traducono in niente. Eppure intorno a Rifondazione tutto si muove. L’ultimo sondaggio (il primo dall’entrata in scena del partito della libertà) offre un quadro in pieno movimento: Forza Italia più Pdl si attesta intorno al 34%; An e Udc vanno giù (rispettivamente 9% e 4,3%); il Pd non si scolla dal 26%; mentre Prodi risale (dal 22,5 al 23,8%) come pure il governo (dal 22 al 24,1%). Tutto si muove, meno Rifondazione: paralizzata dalla «sindrome del ’98» sembra avviata verso un inarrestabile declino a meno che la «cosa rossa», cioè l’alleanza tra tutti i soggetti della sinistra antagonista, non ne nasconda in futuro la crisi. Insomma, Bertinotti e i suoi non hanno una bella prospettiva. Inoltre c’è sempre il rischio che dall’insofferenza dei movimenti e della base elettorale di riferimento nasca qualcosa a sinistra dei rifondaroli. Sull’altre versante la «destra» di Francesco Storace in due mesi di vita è arrivata al 2%. Marco Rizzo, esponente del Pdci che ha dato da poco alle stampe un libro che già nel titolo («Perché ancora comunisti») descrive in questo modo l’« insofferenza» verso questa fase politica: «C’è un ceto politico che ha paura, che per stare al governo potrebbe anche appoggiare la guerra a Cuba».