Rifondazìone lacerata, neppure i bertinottiani si fidano più di Prodi

CONTRORDINE, compagni, ci siamo sbagliati… E come d’incanto il dossettiano Prodi tornò ad essere il vecchio boiardo democristiano, l’uomo di Goldman Sachs e dei poteri forti. «Pensavamo potesse rappresentare la sintesi tra la tradizione sociale della Chiesa e i valori tradizionali della sinistra, invece… Invece a Dossetti ha preferito Montezemolo».
A PARLARE è Maurizio Acerbo, che non appartiene alla scalmanata e un po’ nostalgica minoranza del Prc, ma è un bertinottiano puro. Ed è questa, in fondo, la novità. La novità è che anche tra i ranghi della maggioranza di Rifondazione è ormai diffusa la consapevolezza che restare al governo davvero non si può più. «Se non è oggi, sarà domani, ma la rottura — dice Acerbo — è inevitabile». E stavolta non basterà a scongiurarla lo spauracchio del Cavaliere Nero. «Torna Berlusconi? Pazienza. Gli italiani ce l’avevano con lui per via della questione sociale, della questione morale, della guerra, della laicità dello Stato: tutte cose su cui il governo di centrosinistra non si è dimostrato migliore di quello di centrodestra». E allora, «tanto vale che torni l’originale». Martedì, Acerbo è stato tra quanti hanno cercato di convincere il gruppo del Prc della Camera a votare contro la fiducia sul Welfare. Con lui, il 30% dei deputati comunisti. «Ma — dice Ramon Mantovani, altro (ex?) bertinottiano — la proposta è stata respinta per paura di compromettere il processo costituente della Cosa Rossa con i tre alleati strategici del Pd: Sd, Verdi e Pdci». Diliberto alleato strategico del Pd? «Certo — incalza Mantovani — Diliberto fa dichiarazioni roboanti, ma poi si allinea più degli altri. Nel ’98, ci accusava d’essere troppo morbidi con Prodi, ma quando rompemmo lui si accucciò…». Mantovani è tra quanti credevano all’unità delle sinistre. Ma ora, «se il risultato dev’essere una sinistra decaffeinata, una sinistra light», non è il solo a porsi qualche dubbio. Mentre appare sicuro del fatto che «storicamente, la sinistra ha fatto schifo perché si è sempre innamorata del potere, e questo rischio è oggi attuale più che mai». Dire che il riferimento sia a Bertinotti, sarebbe una forzatura. Certo è che al vertice del Prc sta maturando una spaccatura tra i più moderati (concetto relativo, naturalmente) Bertinotti e Migliore, e i più duri Ferrero e Russo Spena. Con Giordano nel mezzo. Ovviamente, nessuno crede alle potenzialità della verifica di governo chiesta, solo per allontanare le elezioni, dal segretario. Non ci crede neanche Giordano, che però non può dirlo. Mentre Mantovani può, e infatti lo dice: «Se il governo sarà ancora in piedi, a gennaio non cambierà nulla». E allora, non resta che rompere (magari, come propone Acerbo, «dopo aver consultato la base del partito») e riappropriarsi così della propria identità. Del resto, lo scrive anche il direttore di Liberazione, no? «Il governo è diventato un monocolore: lo dirige Walter Montezemolo», scrive Piero Sansonetti. E se il quadro è questo, da quel governo non si può far altro che uscire, così come intima il leader della Fiom Cremaschi. Salvatore Cannavo, capo di Sinistra critica, è uscito ieri. Ma dal partito. «Voto no alla fiducia, sancendo la frattura con il mio gruppo», ha detto alla Camera, dando così definitivamente corpo allo spettro di una scissione.
INSIEME a Turigliatto (altro voto contrario annunciato, stavolta, al Senato) quando, l’8 dicembre, Bertinotti e compagni daranno vita agli stati generali della Cosa rossa, Cannavo fonderà la Sinistra anticapitalista. Mentre il senatore Fosco Giannini si colloca nel mezzo. Dà per scontato che «alle attuali umiliazioni subite dal partito se ne aggiungeranno altre», dice che deciderà come votare sul Welfare «solo dopo aver ascoltato il movimento di Vicenza e gli operai di Mirafiori», e si prepara «a dare battaglia» al congresso del prossimo anno. Dove, temendo più di ogni altra cosa una legge elettorale che lo penalizzerebbe, il Prc potrebbe arrivare con una crisi già alle spalle.