Quando leggo o ascolto persone della levatura di Pietro Ingrao mi si destano immediati sentimenti di rispetto e si fa viva l’attenzione, in quanto testimone di valori e al contempo sempre acutissimo analista politico. Anche questa volta sulla guerra e sul governo gli interventi di Ingrao, che ascoltai e applaudii al palazzo dell’Eur all’XI congresso del PCI (quello del dissenso), illuminano dilemmi e propongono delle scelte nette – come ci si aspetta da un leader politico.
Due sono le considerazioni di Ingrao, svolte su La Stampa e Il manifesto. La prima è che, senza gerarchie tra guerre, occorre situare l’Afghanistan nel quadro dei conflitti regionali e mondiali, anche per non perdere di vista e sottovalutare la fine della missione in Irak e il nuovo tragico scenario del Medioriente; la seconda è il richiamo alla partecipazione alla coalizione di governo, che impone la necessità di costruire una volontà comune fra i membri dell’alleanza per determinare punti di incontro. Ne discende la necessità che non si usi il ‘valore al margine’ di pochi voti al Senato per rovesciare l’espressione della linea di RC, decisa democraticamente dalla maggioranza che ha il diritto di affermarla nelle sedi parlamentari. Quest’ultima considerazione pone un’esigenza reale che deve essere bilanciata con quella del diritto al dissenso, e i nostri parlamentari devono trovare i modi per tentare di conciliare le due istanze, impresa non facile ma possibile.
Ho sostenuto – anche esprimendo il mio dissenso sulle missioni alla Camera tanto da dire sì solo al ritiro dall’Irak e da votare contro la seconda parte dell’articolo 2 del disegno di legge (e, poi, di non votare nel complesso le missioni) – che in Rc non c’è divisione sui valori pacifisti e sull’obiettivo del ritiro delle truppe dall’Afghanistan così come sulla verifica nelle sedi internazionali di tutte le missioni (come stabilito dalla mozione di indirizzo). Per questo è tanto più proficuo discutere con Pietro Ingrao che si pone appunto sul piano delle scelte politiche, dato che sul comune impegno a seguire e realizzare i principi pacifisti non può esserci tra di noi dubbio alcuno. Di persona accompagnai Ingrao e Scalfaro alla manifestazione del 15 febbraio 2003, due figure emblemi dell’articolo 11 della Costituzione.
La domanda che mi ha ossessionato per tutte queste settimane è stata: come mai il 30 giugno in Consiglio dei ministri, proprio per determinare successivamente un punto d’incontro fra i membri dell’alleanza di governo, Rc non ha partecipato al voto, o fatto apporre una riserva, sulle missioni? Come mai fin d’allora ha dato per ‘chiuso’ l’accordo, addirittura prima che si scrivesse nero su bianco la mozione di indirizzo? Come mai non si è attivata, non tanto la ricerca del consenso, quanto la mobilitazione dei soggetti pacifisti per far pesare la loro influenza nella determinazione del ‘punto d’incontro fra i membri dell’alleanza di governo’? E come mai il non voto è stato esercitato dopo pochi giorni sul Dpef? Una guerra non vale un Dpef? Non sarebbe stata questa scelta del non voto in Consiglio dei ministri un modo per manifestare in modo trasparente, prima ancora che il dissenso, il ‘travaglio’ di Rc sulla questione afgana? Così non si sarebbe dato al partito, e anche ai soggetti pacifisti, il tempo dell’elaborazione delle scelte, al di là dell’esito finale del voto favorevole o contrario al disegno di legge? Abbiamo chiuso in fretta, mettendo in difficoltà il partito e abbiamo rischiato di far divenire spettatori, o peggio sostenitori di questa o quella scelta parlamentare, i pacifisti. Dunque è venuto a mancare proprio la spinta a ricercare un punto d’approdo più avanzato, quello per esempio della fine della missione Enduring freedom.
La seconda considerazione di Ingrao è di ‘situare’ l’Afghanistan per dargli la giusta dimensione. Ha perfettamente ragione dinnanzi alla tragedia della distruzione sistematica di beni e persone in Libano e dell’uccisione dei civili a Gaza e a Haifa; sempre ormai nelle guerre contemporanee non si attaccano gli eserciti: ogni persona diviene il bersaglio delle armi. Mi permetto di richiamare, però, il fatto che in Afghanistan opera la Nato con la guida della missione Isaf e che questa guerra è, ancor più di quella del Kossovo, al di fuori dello spazio individuato dallo Statuto dell’Alleanza nord-atlantica. In Afghanistan sta facendo le prove la nuova Nato, quella definita negli accordi di Washintgton del 1999, mai sanciti da un voto parlamentare. Deve l’Italia mettere in discussione da subito, con atti e non solo con propositi, la nuova proiezione geopolitica della Nato: come farlo se non segnando una discontinuità proprio nel teatro di guerra afgano?
Rina Gagliardi ha con ragione parlato di ‘permeabilità’ del governo dell’Unione alle istanze dei movimenti, tanto più permeabile quanto maggiori sono le loro autonomia e pressione. Abbiamo tutti/e detto che questa esperienza di governo è diversa dalle precedenti, più o meno recenti, quando i movimenti, le associazioni e i sindacati sono stati chiamati a sostenere il ‘governo amico’, trasformandosi in strumenti di normalizzazione dei conflitti. Nessuno è portatore della soluzione giusta di come gestire le relazioni tra governo e movimenti in questa fase; siamo alla ricerca, alla sperimentazione purtroppo in corpore vile, e non in un laboratorio. Ogni errore può essere perciò fatale. Non è dato usare, però, teorie come se fossero mots d’esprit per sostenere le proprie tesi. Ciò mi pare capiti a Giovanni Russo-Spena quando afferma su “Il manifesto” che in parlamento “essere pacifisti significa solo aprire dei ‘varchi’” – e, fin qui, forse bene -, per poi aggiungere che “non può entrarci la forza etica della nonviolenza, la forza del pacifismo come prospettiva di un mondo senza guerra e armi. Il parlamento è pur sempre la rappresentazione borghese della democrazia” (22 luglio, p.6). Qui commette due errate valutazioni. La prima, quella più grave, è che nel parlamento italiano devono, e non possono non, entrare le ‘motivazioni pacifiste’ perché è il famosissimo e citatissimo articolo 11 a imporre che le deliberazioni legislative rispettino il vincolo pacifista: il parlamento in una democrazia costituzionale deve essere guidato dai principi della Carta, che sono precettivi e non sono lasciati per la loro attuazione alla libera determinazione politica del legislatore. Finora infatti si è fatto ricorso a escamotages per evitare l’applicazione dell’articolo 11 (uno per tutti: ‘missioni militari’ e non ‘guerre’). Non faremo niente in parlamento per ricondurre le sue deliberazioni al rispetto del principio pacifista dell’articolo 11? I valori sono sovrani, come ci ricorda l’attuale giudice della Corte costituzionale Gaetano Silvestri, e le maggioranze politiche sono tenute a rispettarli. Le decisioni legislative finora adottate sulle guerre sono incostituzionali, abbiano o meno la ‘copertura’ internazionale. La seconda valutazione quella sulla ‘rappresentanza borghese’ ha il sapore di un’affermazione estremista – il parlamento è borghese dunque intrinsecamente limitato (da abbattere, dunque?). A un giurista così fine, che queste cose le insegna, spiace ricordare che la democrazia costituzionale è diversa dalla ‘Stato legislativo’ esistito fino alla Seconda guerra mondiale: nelle democrazia contemporanee, sicuramente in quella italiana, la Costituzione incorpora valori che limitano i legislatori, che non possono decidere ad arbitrio, essendo strettamente ‘legati’ ai principi costituzionali, e che hanno il dovere di attuarli. Quello pacifista attende, purtroppo, ancora la propria attuazione.