Rientriamo, restiamo, andiamo, aspettiamo. La politica estera del governo di centrosinistra può essere condensata in questo stop and go, un andirivieni di indecisioni. Così ora giustamente ritiriamo le truppe italiane inviate in Iraq al seguito della sciagurata guerra di Bush che, parola della Cia, ha rafforzato il terrorismo islamico. Nello stesso tempo confermiamo la presenza in armi in Afghanistan. Una scelta che fu da subito bipartisan, a poco più di un mese dall’11 settembre 2001, una vendetta, motivata perché a Kabul «si ospitavano i terroristi», dimenticando i tanti sceicchi fautori di terrorismo ospitati negli Stati uniti e in Occidente. Per questo si sono massacrati i talebani vinti e catturati, da lì è nata la metodologia di Guantanamo, per questo si sono bombardati villaggi con tanti «effetti collaterali». Ma ora, mentre i nostri soldati fanno da tiro al bersaglio di una guerriglia che ha ripreso forza e consenso politico, che cosa fa diversa la situazione da quella irachena? E invece restiamo, fedeli alla Nato, nella catena di comando Usa e a difesa dei Signori della guerra e dell’oppio.
La scelta è tanto poco convincente che ieri perfino Piero Fassino in una intervista ha sollevato timidi dubbi sulla strategia della Nato in Afghanistan, dopo che ministri e sottosegretari hanno ripetuto la necessità di riportare i nostri soldati a casa. Subito redarguito dal ministro degli esteri Massimo D’Alema che ha dichiarato: «Non si rimodula nulla». D’Alema e Fassino per un attimo sono sembrati il presidente afghano Hamid Karzai e quello pachistano Musharraf che non si sono riconciliati nemmeno davanti a Bush, in un flop elettorale della Casa bianca che li ha visti «semplicemente» accusarsi a vicenda di nascondere Osama bin Laden.
Andiamo però nel Libano del sud. Certo, non è una nuova guerra, andiamo come caschi blu, accettati da tutte le parti in causa, a fare interposizione. E il primo risultato positivo è che la guerra è stata, per ora, fermata. Ma anche lì appaiono troppe ambiguità, troppi se e tanti ma. L’interposizione avviene a dire il vero solo sul territorio libanese, conteso all’arma bianca da hezbollah libanesi dopo 34 giorni di sanguinosi bombardamenti aerei da parte d’Israele e lanci di razzi katiusha sulla Galilea, con tante stragi fra i civili e ora con 100mila meticolose quanto inesplose cluster bomb sganciate dall’aviazione israeliana che impediscono ai civili di tornare e rappresentano una minaccia per i caschi blu. Ma tante sono le mine a tempo. A partire dall’intenzione dell’amministrazione Bush e del governo israeliano di modificare i termini della risoluzione Onu che ha deciso la missione Unifil. Soprattutto sul disarmo degli hezbollah che la risoluzione esclude. Olmert alza la voce decidendo per ora che le truppe non si ritirano del tutto dal Libano del sud, non dimenticando di fare un vademecum su quello che i soldati internazionali dovrebbero fare – rastrellamenti, sequestri di armi, check point – e quello che Israele si riserva di fare – p. s., sparare a vista contro ogni manifestazione di protesta sul confine.
E’ dunque una missione rischiosissima. Dov’è soprattutto a rischio la possibilità di incidere, davvero e fra le parti, sulla «madre» di tutte le questioni mediorientali: quella palestinese. Di questo sappiamo che Massimo D’Alema è più che cosciente e l’aver affermato che la questione dell’interposizione dei caschi blu riguarda anche i Territori palestinesi occupati da Israele, a partire da Gaza – «basta assedio», ha ripetuto inascoltato – è davvero la novità sul campo. Come l’apertura del dialogo avviato da Romano Prodi con il regime iraniano. Sul quale pende la minaccia delle sanzione per via della decisione di arricchire l’uranio per quello che dichiara essere il nucleare civile. Una minaccia ripetuta anche da D’Alema, senza che mai nessuno dal governo sollevi il nodo delle atomiche d’Israele.
E infine aspettiamo. Nei Balcani aspettiamo, rimandando solo di un po’ la scelta già presa dell’indipendenza etnica del Kosovo dalla Serbia – a questo serviva la guerra «umanitaria del 1999? Stati uniti, Ue, Nato, Albania, pretendono l’indipendenza entro l’anno. La scelta farà precipitare la crisi nei Balcani, a partire dalla Bosnia. Aspettiamo la rivolta, come già nel marzo del 2004, per cacciare i pochi serbi rimasti e contro i militari della Kfor che «difendono» le enclave-prigioni delle minoranze. Altro che standard di democrazia necessari all’indipendenza.
Torniamo, restiamo, andiamo, aspettiamo. I governi Berlusconi hanno devastato tutta la diplomazia mediterranea e mediorientale dei governi – ahimé – democristiani, azzerando il ruolo dell’Italia alla dimensione atlantica e a quella di piazzista d’armi. Ora siamo sospesi, tra una vocazione mediterranea e mediorientale e una scelta atlantica preconfezionata, spesso contrapposta all’obiettivo della pace. Come dimostra anche il silenzio del governo sull’operazione mastodontica della base Usa di Vicenza e sulla dotazione atomica di molte «nostre» basi. No, non è una politica estera.