Teheran non può lasciarsi scappare l’occasione di riallacciare i rapporti con Washington. Migliori relazioni diplomatiche contribuirebbero a risolvere una serie di problemi, tra cui la spartizione del Mar Caspio, il contenzioso per una manciata di isole nel Golfo e il passaggio degli oleodotti attraverso l’Iran.
Da che parte sta la Repubblica Islamica? I messaggi sono contraddittori: da un lato Teheran si proclama neutrale, mentre ieri l’ambasciatore iraniano a Parigi ha ventilato la possibilità di un “riavvicinamento tra Iran e Stati uniti” in questa fase; dall’altro il ministro della difesa Shamkhani nega ogni aiuto logistico e minaccia di colpire i caccia che violeranno lo spazio aereo iraniano. Secondo Shamkhani, per gli Stati Uniti l’attentato di New York sarebbe un pretesto per espandersi in Asia centrale e nel Caucaso, regioni ricche di risorse energetiche.
I diplomatici dei due Paesi si sono recentemente incontrati a Ginevra, in presenza dei colleghi tedeschi e italiani. Gli analisti azzardano l’ipotesi di un “matrimonio” di convenienza, seppur temporaneo e quindi nella migliore tradizione dell’Islam sciita. Ma il Leader supremo Khamenei esclude ogni collaborazione e chiede ai Paesi islamici di fare fronte comune.
La crisi internazionale ha intanto riavvicinato Teheran e il Cairo. E infatti il ministro degli esteri iraniano Kamal Kharrazi ha incontrato il presidente egiziano Hosni Mubarak. Ulteriori colloqui avranno luogo nei prossimi giorni, in occasione dell’incontro in Qatar dei cinquantasei Paesi aderenti all’Organizzazione della Conferenza Islamica.
Che cosa chiede Washington? Vuole che Teheran dia una mano all’Alleanza del nord, fornisca informazioni su Bin Laden e non intervenga nel caso di attacco militare contro l’Afghanistan. L’ostacolo maggiore a un riavvicinamento è dato dall’appoggio degli ayatollah a una serie di organizzazioni che combattono contro Israele e sono quindi definite “terroristiche” nel vocabolario americano. Insomma, come al solito – denunciano gli iraniani – il Dipartimento di Stato usa due pesi e due misure.
Teheran e Washington si guardano in cagnesco da oltre vent’anni e cioè da quando, nel novembre del 1979, un gruppo di studenti occupò l’ambasciata americana. Ora, l’Iran parteciperà alla coalizione internazionale contro il terrorismo a patto che sia guidata dalle Nazioni Unite. Per una volta, a Teheran si chiude un occhio sulle pressioni americane sul Palazzo di vetro. Ma non sono mancate le critiche quando, due giorni fa, la risoluzione contro il terrorismo è stata approvata nello stesso momento in cui veniva divulgata l’inchiesta dell’Onu sulle violazioni dei diritti dell’uomo in Iran.
Il ministro degli esteri iraniano Kharrazi ha definito l’inchiesta “un ulteriore tentativo di danneggiare l’immagine della Repubblica Islamica”: nonostante queste vicende, il riavvicinamento a Washington è un’opportunità che gli ayatollah non devono lasciarsi sfuggire. Dopotutto, al Pentagono farebbe comodo utilizzare lo spazio aereo della Repubblica Islamica, mentre agli ayatollah non par vero che l’arsenale americano possa scaricarsi contro i talebani.
Non corre buon sangue tra i leader sciiti e i talebani, di matrice sunnita e per di più wahhabiti come i sauditi. A Teheran gli ayatollah si considerano più liberali rispetto ai colleghi di Kabul e Riad. E, nonostante la guerra dei media che insiste con le immagini dei chador, non hanno tutti i torti: in Iran la maggioranza degli iscritti all’università sono fanciulle, il gentil sesso ha accesso al mercato del lavoro e non si è mai visto negare la patente a una signora. In Arabia saudita, invece, alle donne è vietato stare al volante e la polizia religiosa si accerta che i negozianti chiudano le serrande cinque volte al giorno e ottemperino alla preghiera. Eppure, queste immagini non ci vengono proposte dalle televisioni. Le autorità di Riad non concedono facilmente a nessuno il visto d’ingresso nel regno, tantomeno in queste settimane.
Ma per capire qualcosa di più a proposito dei recenti eventi occorre soffermarsi proprio sull’Arabia saudita. Hamza Alghamdi, uno degli attentatori, era originario di Baljurchi, nella provincia saudita di Baha. Altre tracce riconducono alla penisola: il kamikaze che si è schiantato contro il Pentagono si chiamava Hani Hanjour ed era originario della località saudita di Taif. I fratelli Alshehri provenivano da Khamis Mushayt, nei pressi di Abha, provincia di Asir, dove viveva anche Ahmed Alnami.
Cresciuti nel regno di re Saud, alleato degli Stati Uniti, hanno colpito l’America, ma ora Washington punta i missili contro Kabul, colpevole di averli addestrati. E, per la prima volta in vent’anni, si augura di aver dalla sua gli ayatollah di Teheran.