Restare fermi a difendere quel che è rimasto di se stessi è inutile e suicida.Caro Prc,andiamo oltre

Io penso che la sinistra italiana abbia una sola speranza di sopravvivere, di riprendere il suo cammino, cioè di tornare a fare politica: “andare oltre”.
Cosa vuol dire? Vuol dire non fermarsi alla difesa delle proprie certezze e delle poche casematte non ancora rase al suolo. Penso che se la sinistra si accontenta di difendere se stessa – o il residuo di se stessa – è condannata alla scomparsa, alla resa.
Voi sapete benissimo che usando questa espressione (“andare oltre”) sollevo una polemica. “Andare oltre” è una espressione che Liberazione adoperò più di un anno fa, all’inizio dell’estate 2007, in un famoso titolo di prima pagina, per proporre la formazione di una nuova forza politica della sinistra, più larga e complessa dei partiti di allora (che poi sono gli stessi di adesso). La proposta fu respinta con un certo sdegno. Si decise, come ricordate, per una alleanza elettorale che non scalfisse l’organizzazione dei partiti.
L’altro giorno Claudio Grassi , cioè uno degli esponenti più prestigiosi dello schieramento che ha vinto il congresso di Rifondazione, è tornato a polemizzare con noi proprio con un articolo su Liberazione . Ha scritto: «La sinistra italiana si regge in larga misura sul ruolo e sull’iniziativa dei comunisti… quel lungo corteo ( il corteo dell’11 ottobre ndr) va preso molto sul serio… accantonando una volta per tutte la velleità controproducente, irragionevole, dell'”andare oltre” e del costruire una “sinistra senza aggettivi”» .
Non sono affatto d’accordo con Grassi. Penso che la sua – se mi permettete la battuta – sia una posizione “tolemaica”. Cioè che pone la terra al centro dell’universo e si rifiuta di capire – come capitò alla Chiesa cattolica – che non è più così, che Galileo ha ragione, che la terra esiste, è importante, ma non è il tutto e non è centrale.
Il rifiuto di andare oltre, la paura di uscire all’aperto – dopo una sconfitta effettivamente terribile come è stata la sconfitta elettorale di primavera – temo che possa portare solo alla paralisi, alla rinuncia, alla sostituzione della politica con l’autocontemplazione. Se non voglio più andare oltre, se rinuncio all’obiettivo della trasformazione – per come vedo io le cose – è come se rinunciassi all’orizzonte, e quindi alla possibilità di crescere, di vincere, persino di combattere. Se non aspiro ad andare oltre – credo – non aspiro più a fare politica.
Cosa vuol dire andare oltre? Rinunciare alle proprie radici, alla propria storia, al comunismo? Non vuol dire rinunciare né alla storia né alle radici. E neppure alla forza indiscutibile di alcuni punti di vista, che sono quelli che danno senso alla sinistra, perché sono più solidi, più forti dei punti di vista moderati. Il comunismo però, se diventa la bandiera di una cittadella assediata e niente di più, finisce con l’assumere un valore conservatore. Diventa “comunismo di destra”. Credo che spesso nella storia del movimento operaio sia esistito un comunismo di destra, che frena il rinnovamento e contiene la carica radicale della sinistra. Credo che nel Pci sia stato comunismo di destra quello amendoliano, per un lungo periodo, e quello cossuttiano. Che tendevano a legare il partito all’Unione sovietica, e alle sue barbarie, e lo rendevano in questo modo subalterno al centrosinistra in Italia. Il comunismo di destra, in quegli anni, era filosovietico e filogovernativo, non condannava l’imperialismo russo e sosteneva una politica di accordi e compromessi in politica interna.
Io temo che oggi il partito più importante della sinistra, e cioè Rifondazione, rischi di tornare a chiudersi in una idea di difesa della fortezza, in cui l’unica cosa che conta è la propria sopravvivenza e la sopravvivenza delle proprie bandiere e della falce e martello. E io temo che se fa così è perduto.
Non mi pare che ci sia altra via percorribile se non quella di ripartire da zero. Cioè di ricostruire il punto di vista della sinistra e la possibilità che questo punto di vista conti, produca frutti, cioè entri nella battaglia politica. Ripartire da zero vuol dire rinunciare alla ripetizione delle proprie certezze novecentesche. E’ un ripudio del comunismo? Personalmente da molti anni non mi considero più comunista, ma questo non mi impedisce di lavorare e combattere a fianco dei comunisti e addirittura di dirigere un giornale che si definisce comunista. A condizione che non si pensi per dogmi. Che si capisca che il marxismo, che è una gigantesca teoria politica, non è più sufficiente. Sia perché non ha saputo sciogliere alcuni nodi che oggi vediamo quanto siano decisivi (il rapporto tra Stato e potere, tra Stato e libertà, tra uguaglianza e libertà), sia perché questo suo difetto ha portato a tragedie gravissime in molte parti del mondo, sia perché ha costruito tutto su una sola ipotesi di contraddizione (quella tra capitale e lavoro) ignorando altre contraddizioni, che nel XX secolo si sono affermate come monumentali cotraddizioni, e cioè quella di sesso, tra uomo e donna, quella ambientale, tra produzione e natura e altre ancora.
Andare oltre vuol dire esattamente questo. Convincersi che non potrà più esistere una sinistra capace di “egemonia” se non saprà rispondere alla crisi del capitalismo senza farsi imbrigliare negli schemi del capitalismo. Ho seguito nei giorni scorsi il dibattito aperto da Rossanda Rossanda sul manifesto , e ripreso da Bertinotti, dal quale è emerso lo stupore per una sinistra muta di fronte all’epocale crisi di questi giorni. Condivido lo stupore (e dico anche al Prc che non riesco a capire come, in questi frangenti, si possa affidare la propria immagine politica al referendum, secondo me insensato, contro il Lodo-Alfano…). E tuttavia mi pare che anche le risposte di Rossanda e Bertinotti siano insufficienti. Penso anch’io che bisogna rilanciare il ruolo dello Stato in economia, e penso che abbia ragione Fausto a porre con drammaticità la questione del lavoro. Io però – scandalosamente – non sono affatto convinto che si possa riprendere il “discorso” sulla sinsitra dalla semplice conferma del lavoro come tema centrale. Sempre di più mi convinco che una sinistra del XXI secolo deve rinunciare ad avere un centro. Deve essere plurale (e non solo pluralista) perché costruita su un pensiero plurale, che pone i grandi temi e gli interrogativi giganteschi, di sistema, posti dal femminismo e dall’ambientalismo, sullo stesso piano dei temi del lavoro. Non penso che sia possibile costruire un progetto di alternativa, che davvero si ponga in competizione con il capitalismo, se non si ha l’ambizione di realizzare una critica profonda e completa di tutti i poteri, del mercato, delle relazioni tra donne, uomini, denaro, produzione, potenza e ambiente. Ho l’impressione che limitarsi a ripartire dal lavoro sia una scorciatoia che però si avvita su se stessa e non ci porta “oltre”, ci riporta indietro.