Resistenti a Franco nelle carceri femminili di Madrid

Molto si è scritto e si scrive delle lotte e dei percorsi delle donne per rivendicare e affermare la propria identità di genere. Meno discussa la condizione di disagio, assimilazione, rifiuto o sfida di quelle che, per necessità o per scelta, si trovano in ruoli e situazioni ancora oggi ritenuti maschili per definizione. Pochi (e poche) hanno scavato nel modo (uguale e diverso) in cui uomini e donne (donne soprattutto) hanno vissuto scelte e prove estreme. Lo ha fatto nel suo ultimo romanzo, uscito appena un anno prima della sua prematura morte, Dulce Chacòn, scrittrice spagnola attenta alla memoria del suo paese, con particolare riguardo alla guerra civile e al franchismo. Le ragazze di Ventas (Neri Pozza editore, pp. 351, euro 16.50) è costruito su testimonianze dirette delle miliziane risparmiate dai massacratori delle Falange perché il loro pentimento, insieme al ricordo degli orrori vissuti, scoraggiasse ogni velleità di resistenza. Ma nel carcere madrileno di Ventas, un universo femminile dove si fronteggiano e si sfidano suore e secondine fanaticamente devote a dio e al “generalissimo” e detenute strette assieme dalla volontà di conservare dignità e orgoglio, la solidarietà fra compagne diventa affetto, trasformando i bracci in famiglie allargate ai parenti in visita che si scambiano dolori, speranze, notizie ma anche incarichi segreti, piccole e pericolose ribellioni: maglie della fragile e invincibile rete clandestina che né la galera né la garrota riescono a spezzare.
Non sono eroine da manuale, votate alla causa, le ragazze di Ventas, ma donne di diversa età e condizione con figli, mariti, genitori, fratelli e sorelle, con alle spalle case, lavori, amori, progetti di vita che, con semplicità, hanno intrecciato alla difesa della Repubblica, impugnando le armi, ricamando una bandiera, occupando le terre requisite agli agrari. E hanno conosciuto i diritti, la solidarietà internazionale, la dura legge della lotta e della sconfitta. Quella sconfitta che non vogliono accettare. E’ Hortensia, detta Tensi, incinta, la cui condanna a morte è stata rinviata a dopo il parto, che riempie due quaderni di parole d’amore per il marito, in clandestinità, e per la creatura che sta per nascere, un’altra Tensi, che alleverà la zia, Pepita dagli occhi azzurri, impegnata nel Soccorso rosso sempre proclamando la sua estraneità alla politica e l’avversione al partito comunista che “porta solo guai”, dal quale non riuscirà a tener fuori la sorella, il cognato, il fidanzato e nemmeno la piccola Tensi che a diciotto anni prenderà la tessera del Pce. E’ Reme che ha fuori figli, nipotini e marito, il “povero Benjamin” che ha lasciato il paese e il lavoro per starle vicino. E’ Tomasa che fuori non ha nessuno perché suo marito, i suoi figli e sua nuora sono stati buttati giù da un ponte dai falangisti e ora è la più dura e sprezzante con suore e carceriere, quindi la più soggetta a punizioni. E’ Elvira, la più giovane e la più delicata, spesso febbricitante, che riuscirà a fuggire, partecipare alla guerriglia, riparare all’estero. E’ la donna di Granada che piange il giorno della liberazione perché è appena entrata in menopausa e non potrà più avere il figlio che sognava.

A Ventas tutte le storie si intrecciano mentre volano canzoni proibite, mentre si soffre la fame e si conserva un po’ di cibo per le più cagionevoli, per quelle che non ricevono aiuti da fuori, per quella che diventerà mamma appena prima di morire, mentre si lavano i pannolini che qualcuna è riuscita a portare con sé per evitare il disgusto e la vergogna delle gonne macchiate di sangue. Intanto, fuori, altre donne, le stesse che si ritrovano nel parlatorio del carcere, tessono pazienti trame: la strepitosa fuga di Elvira e Sol durante una rappresentazione delle detenute, con la complicità di una famosa cantante e di due divise della Falange e il pietoso lavoro di donna Celia che ogni mattina va al cimitero, non a pregare sulla tomba della figlia caduta in combattimento ma per tagliare un pezzetto di stoffa dagli abiti dei giustiziati da consegnare ai familiari ai quali è vietato l’ingresso. Perché sappiano che il loro parente è stato fucilato e sepolto lì, in una fossa comune, senza nome né preghiere.

Oggi si parla (e si scrive) molto di uccisioni, violenze, orrori, di vincitori e di vinti ma pochi conoscono l’orrore di uno dei fascismi più longevi e più crudeli e dei suoi capi, quasi tutti morti in pace nel proprio letto. Le semplici e fiere ragazze di Ventas, e la donna che ha fermato sulla carta le loro storie, meritano la riconoscenza degli spiriti liberi di tutto il mondo.