Requiem per il LIBERISMO

Il liberismo? Oramai morto e sepolto. E l’euforia mercatista, la febbre delle privatizzazioni, il verbo antistatalista che soffiava impetuoso nel monda della politica e finanche del sindacato, nell’universo dei manager e dei tecnocrati, perfino tra gli intellettuali, che pure incarnano il ceto più conservatore della storia? Tutto andato in frantumi, depotenziato, spento, ingrigito da una patina di polvere. “Privatizzazioni» è diventata una parolaccia, bandiera dì uno sparuto gruppo di lunatici. Del libero mercato si sottolineano oramai soltanto i limiti. Gli individui cedono nuovamente il primato ai gruppi, ceti e corporazioni «concertano». I ritratti sbiaditi di Luigi Einaudi cedono il posto a quelli di Colbert simbolo e rappresentante e predominio dello Stato sull’economia. Finisce un’ epoca nata nei ruggenti anni Ottanta. Sembrava la marcia trionfale delle ideologie del mercato, ma adesso è il momento delle note meste di un requiem. II requiem del liberismo.
La riforma delle pensioni, simbolico fiore all’occhiello di un governo nato cantando le lodi del liberismo, si scolora, si smorza, si attenua. Mesi fa la maggioranza va sotto in Parlamento per non privatizzare alcuni immobili di Roma: meglio non urtare la suscettibilità della casta militare. Nei partiti della maggioranza prevalgono i volti e le culture che fanno della “coesione sociale» il feticcio da contrapporre alla ritirata dello Stato dall’economia. Media per An Gianni Alemanno, vessillifero della destra sociale». Statalista? Statalista. Ricompare nelle trattative sulla Finanziaria a Palazzo Chigi Sergio D’Antoni, una vita sindacale e politica a difesa dell’ antico Welfare all’italiana di marca democristiana. Statalista? Statalista. La Lega, nata sull’onda anomala della rivolta fiscale del “popolo delle partite Iva», si trasforma nel guardiano occhiuto delle pensioni d’anzianità, ribattezzate “l’ultimo salvadanaio del Nord”. E chi avrebbe mai potuto immaginare che con un governo di centro-destra avrebbe ripreso smalto il fascino antico dei dazi doganali, delle tentazioni protezionistiche e persino, in Piemonte, degli anatemi contro il geneticamente modificato, spauracchio degli agricoltori super-protetti?
E’ al tramonto un’epoca cominciata agli albori degli anni Ottanta. Ralph Dahrendorf, che pure è un liberale non particolarmente incline al radicalismo liberista, parlava tranquillamente di “fine del secolo socialdemocratico». Dilagava il fascino ipnotico di Margaret Thatcher: privatizzare, privatizzare, privatizzare. Piaceva il thatcherismo persino nelle sue manifestazioni più estreme, quando la Lady di ferro, la donna più detestata dal conservatorismo di sinistra, asseriva baldanzosa che anon esiste la società, esistono gli individui». Molto oltranzista, ma sull’onda di quell’oltranzismo, anche Tony Blair ha dovuto inventarsi la formula vincente di un nuovo laburismo non anti-thatcheriano. E c’era la forza di Ronald Reagan, che gli snob disprezzavano alla stregua di un attore di serie B grossolano e inelegante, ma che intercettava il nuovo umore che attraversava i il mondo in quella temperie culturale. Erano anni in cui la sinistra cominciò a mettersi in difesa, a maledire lo spirito dei tempi, a trasformarsi nella fortezza degli interessi minacciati, protetti e super-garantiti. Difficile sottrarsi all’influsso delle provocazioni culturali del Censis di Giuseppe De Rita, che pure non era una fucina liberista, ma esaltava il “piccolo è bello” contro il grande onnivoro e soffocante di uno Stato onnipotente, dirigista, e iper-regolamentatore. Difficile non percepire la forza dirompente dell’appello di Guido Carli, che pure non era un nemico del sistema democristiano, a “rimuovere lacci e laccioli” che stringevano come un cappio asfissiante le energie dei singoli. Dei «privati», Perché in Italia non sono mai arrivati i libertarian anarco-capitalisti della destra culturale americana che invocavano, ricalcando una provocazione di conio futurista, “la privatizzazione del chiaro di luna». Però andavano a segno le analisi di Alberto Ronchey su quel sistema italiano da lui ribattezzato “italianskaja salat», un capitalismo che assomigliava sinistramente al socialismo reale in cui lo Stato ficcava il naso in ogni comparto della vita economica e civile . Persino dalla figura di Bettino Craxi, che pure era un uomo incardinato nella storia della socialdemocrazia, emanava un’esortazione elettrizzante agli «spiriti animali» della società, al dinamismo del privato. «Arricchitevi», sembrava dire il nuovo Guizot. Anche per questo Craxi non venne digerito dal pauperismo dominante nella sinistra.
Negli anni Novanta sembrava che il verbo liberista avesse visto senza riserve. Il politicamente corretto immancabilmente associava al termine liberista l’aggettivo squalificante «selvaggio». La sinistra più radicale prese a bersaglio, oltre che il liberismo, anche il neo-liberismo. Però anche la sinistra de1l’Ulivo sembrava presa dal sacro fuoco liberista. Privatizzò, mercatizzò, si europeizzò. Franco Debenedetti scrisse un pamphlet per dire alla destra che la sinistra era liberisticamente oramai più avanzata. Si aprì alla parità della scuola. Si mise mano persino alla liberalizzazione del commercio. Ma adesso tutto è passato. Anche a sinistra. Lo stesso Debenedetti appare una scheggia isolata in una sinistra che ha ritrovato nel «sociale» il suo cantuccio. I riformatori del mercato del lavoro, da Tiziano Treu a Nicola Rossi a Pietro Ichino, stanno sulla difensiva. Isolati sono i radicali, le cui proposte per la liberalizzazione dell’economia appaiono sempre più suppliche nel deserto. Berlusconi, che sembrava l’incarnazione dell’ottimismo liberista, dell’uomo che si fa da sé, che si ribella ai vincoli troppo stretti, che si fa paladino del cittadino torchiato dalla macchina vorace del fisco, tutto può permettersi di apparire ma non un nemico della ormai mitizzata «coesione sociale”. Giulio Tremonti da tempo (cominciò con una serie di interviste alla Stampa) indica Colbert come un gigante della storia, proclama chiusa l’età del liberismo senza limiti. Antonio Martino, una vita accademica spesa, a rischio dell’isolamento personale, sulla trincea del liberismo assoluto, si occupa d’altro. Di cose importantissime come la Difesa, per carità: ma cosa è “statalista più della guerra, della sicurezza, degli eserciti, della protezione collettiva?” Il thinktank del riformismo liberista alla Renato Brunetta e alla Giuliano Cazzola invoca radicali interventi strutturali in campo pensionistico: ma non tengono conto della «coesione sociale», mentre sempre più ascolto ha nella formazione della politica economica del centro-destra il contributo di consigli e di suggerimenti di Paolo Cirino Pomicino, un monumento dell’ antiliberismo. Gli industriali mormorano indispettiti, i medici che speravano di liberarsi dai vincoli anti-privatizzatori del «sistema Bindi» non vedono alternative allo statalismo sanitario e studiano il decalogo delle misure restrittive anti-obesità del ministro Sirchia. Perfino l’eventualità di non diminuire le tasse, una bestemmia fino a poco tempo fa, diventa un’ipotesi nel mondo del centro-destra. Ruggiscono quelli di Alleanza nazionale, che il liberismo berlusconiano lo hanno sempre subito come una dolorosa necessità. Si galvanizzano gli eredi della Dc, per i quali “sviluppo” diventa sinonimo di finanziamenti e sovvenzioni. Margaret Thatcher, dicono le cronache, è vittima di una malattia che ne sta spegnendo poco a poco la vitalità. Reagan è l’ombra di se stesso. Un’epoca sta tramontando. Solo inguaribili nostalgici ripetono melanconici lo slogan di un passato che non c’è più, quando si recitava in coro “meno Stato, più mercato”.