Requiem civile per Portopalo

«Mano a mano che passava il tempo le urla diventavano sempre più deboli e i cadaveri affioravano sempre più numerosi, assomigliavano ai mucchi di erba e di paglia che galleggiano sui nostri fiumi»: con queste parole Shahab Ahmad, un pakistano oggi 33enne, racconta il naufragio al quale è scampato dieci anni fa. Era il 26 dicembre del 1996, alle tre del mattino poche miglia separavano l’imbarcazione da Portopalo di Capo Passero, in Sicilia: quella notte in cui rischiò di morire Shahab verrà a raccontarla all’Auditorium Parco della Musica di Roma, come testimone-attore di Portopalo. Nomi, su tombe senza corpi, il requiem civile – così lo chiama il regista Giorgio Barberio Corsetti – coprodotto dalla Fondazione Musica per Roma e da Romaeuropa Festival, che andrà in scena il 7, l’8 e il 9 dicembre.
Il sottotitolo – spiega il critico musicale Guido Barbieri – «è l’unica concessione di questo lavoro alla letterarietà: rimanda alle Metamorfosi di Ovidio, laddove Alcione cerca di far desistere Ceice dall’andare in mare a combattere un mostro marino, e le dice: ‘troppe volte ho visto nomi, su corpi senza tombe’». In questo caso, i nomi sono quelli delle 283 persone morte nel tentativo di raggiungere le coste italiane, le tombe sono disseminate tra lo Sri Lanka, l’India e il Pakistan, mentre i corpi sono ancora in fondo al mare. Alcuni furono trovati dai pescatori locali nei giorni successivi al naufragio, ma vennero ributtati in acqua affinché le grane giudiziarie non compromettessero il lavoro.
«Gli emigrati sono carne umana come noi – sostiene un pescatore siciliano nel video realizzato da Paolo Pisanelli per lo spettacolo – ma lasciateli a casa, dateci due soldi… fateci qualcosa di lavorare. Qui abbiamo dieci, quindici negri: chi li paga?».
Per aprire quella porta
È anche a causa di questa mentalità che i familiari delle vittime non trovano pace: «Tutti ripetono un leitmotiv tragico e al tempo stesso banale – racconta Guido Barbieri che, insieme a Oscar Pizzo, lavora a questo progetto da due anni -. Dicono che la loro disperazione non è data dalla morte, perché questa è un evento probabile e ammissibile, ma dall’impossibilità di avere il corpo dei propri cari su cui andare a pregare. Questo, infatti, non permette loro di riconoscere la morte come un dato in fondo inevitabile, persino accettabile».
L’obiettivo degli autori dello spettacolo non è però quello di rappresentare la vicenda di Portopalo, o di rendere finalmente accettabile qualcosa che non potrà mai esserlo, «ma di riuscire ad aprire una porta su numeri, dati, sensibilità, conoscenze, relative alle morti sconosciute – spiega ancora Barbieri -. La scommessa che abbiamo fatto con questo gruppo così eterogeneo è quella di provare a pensare insieme un modo per rappresentare sulla scena una vicenda che ci ha colpito per la sua assoluta unicità, e che tuttavia è molto rappresentativa di qualcosa che non è affatto irripetibile: le morti per immigrazione». Per aprire quella porta c’è stato bisogno di accogliere i «suggerimenti» dei parenti delle vittime, di assorbirne la sensibilità: «Pensavamo di raccontare storie singole – continua Barbieri – ma durante i quindici giorni trascorsi in Pakistan ci siamo accorti che avevamo sbagliato completamente impostazione, e che non esistono casi individuali, ma soltanto storie corali. Tornati in Italia, abbiamo affannosamente reinventato una struttura per lo spettacolo, anche se poi essa si riduce a quasi nulla, e l’abbiamo pensata come una giustapposizione di tante tessere del domino, che si legano l’una all’altra cercando di disegnare un percorso a ritroso». La risalita nel tempo e nello spazio va dalla Sicilia all’estremo oriente: «Il mare ci ha portato in giro, racconta il videomaker Paolo Pisanelli, prima in Sicilia, a Palermo e Portopalo, poi verso il Pakistan, e nel Punjab indiano, per vedere da dove partivano quelle persone che poi sono naufragate. Abbiamo lavorato tra visioni e testimonianze: visioni della Sicilia e del Pakistan, ma prima di tutto del mare; e testimonianze delle persone coinvolte, come quella della donna che perse nel naufragio il suo amatissimo marito e che per lui ha scritto nel tempo poesie e canzoni. Una di queste canzoni, con un testo bellissimo, l’ha cantata per noi». Le sue parole raccontano di una donna in attesa di una barca che le riporti il pezzo di cuore che l’Italia le ha strappato.
«Una delle cose che più ci ha sconvolto – racconta Barbieri – è proprio il fatto che ci siano donne ancora convinte, in un angolo della loro disperazione, che il figlio, il fratello o il marito prima o poi possano ancora tornare. E questo, a ben guardare, è il prodotto di una serie di incredibili omissioni, di cui sono responsabili tutti, in maniera «ecumenica»: governi, magistrature e polizia. Il lavoro che nei giorni successivi al naufragio ha fatto Livio Quagliata per il manifesto, avrebbe dovuto farlo la polizia. Anche Dino Frisullo è riuscito in poco tempo a ricostruire in maniera molto attendibile tutta la vicenda, con un’inchiesta alla quale quelle successive non hanno aggiunto nulla di importante».
Testimonianze e connivenze
Nel gennaio 1996, infatti, mentre le autorità italiane accoglievano con evidente scetticismo le notizie relative al naufragio in cui erano state coinvolte le navi Yiohan (che trasportava circa 450 passeggeri) e la F-174 (che, partita la sera del 25 dicembre dal porto di Marsaxlokkos, avrebbe dovuto offrire il servizio shuttle fino alla Sicilia) Livio Quagliata e Dino Frisullo avevano già raccolto le testimonianze di alcuni supersiti fatti sbarcare sulla costa del Peloponneso, a Ermioni, la sera del 29 dicembre; inoltre, avevano individuato alcuni degli «agenti di viaggio» coinvolti nel traffico di esseri umani, come Youseff El Hallal, libanese, capitano della Yiohan, considerato uno dei più importanti trafficanti di uomini del Mediterraneo; e avevano ricostruito parzialmente la struttura piramidale dell’organizzazione criminale, che disponeva di basi logistiche e di appoggi a Malta, in Grecia, Egitto, India, Pakistan, per poi denunciare le connivenze degli uffici doganali e delle capitanerie di porto di tutto il Mediterraneo. All’immobilismo della classe politica italiana – interrotto solo dalle iniziative di qualche deputato, tra i quali Tana De Zulueta, che nel gennaio 1997 presentò una interrogazione parlamentare e nel marzo 2002 un disegno di legge per recuperare il relitto della nave affondata e costruire un sacrario interreligioso – si contrapposero le efficaci capacità investigative e organizzative delle comunità pakistane, indiane e tamil, che rivendicarono il diritto di sapere come fossero realmente andare le cose e di accertare responsabilità ed eventuali omissioni di soccorso e di atti d’ufficio. Zabihullah Bacha, imprenditore agricolo del distretto pakistano di Swabi, importante autorità religiosa della zona e padre di Seyd Habib, morto nel naufragio, svolse una inchiesta, che avrebbe poi presentato a Roma, Siracusa e Atene. E Balwant Singh Khera, leader religioso del Punjab indiano, presidente dell’associazione Malta boat tragedy probe mission, guidò una delegazione ad Atene, Malta, Parigi e Italia.
Quando, nel giugno 2001, grazie all’inchiesta del giornalista della Repubblica Giovanni Maria Bellu – che a questa vicenda avrebbe poi dedicato il libro I fantasmi di Portopalo e che ha collaborato alla realizzazione del lavoro per l’Auditorium di Roma – venne ritrovato il relitto della nave F-174, l’allora presidente della Commissione europea, Romano Prodi, disse: «Orrore, dolore, perfino vergogna: ecco cosa provo guardando quella povera gente che cercava una speranza ed è finita così».
I familiari delle vittime, che ricordano bene il ruolo che rivestiva Prodi al tempo del naufragio, hanno imparato a diffidare delle dichiarazioni ufficiali. Probabilmente, in quei giorni pensarono piuttosto alle parole che Livio Quagliata scrisse sul manifesto del 17 giugno 2001: «Piangete e fate oggi ciò che eravate nelle condizioni di piangere e fare quattro anni e mezzo fa».