Reportage da Guantanamo – Espresso del 2 novembre 2006

Il colonnello Mike Bumgarner ha assunto la direzione del centro di detenzione della Baia di Guantanamo nell’aprile 2005. Aveva sperato di essere spedito in Iraq. Tra gli ufficiali di alto grado del corpo della polizia militare dell’Esercito, la carica di direttore delle guardie in un campo Usa di detenzione a Cuba non era considerata particolarmente importante. In un certo qual modo quella poltrona costituiva un rischio per la carriera. Bumgarner immaginava che quell’incarico equivalesse ad almeno un anno da trascorrere lontano dalla propria famiglia, alle prese con qualche insignificante insurrezione di centinaia di arrabbiati presunti terroristi.
Bumgarner allora aveva 45 anni e aveva ricevuto le consegne dal responsbile della task force di Guantanamo, il generale di divisione Jay W. Hood. Alcune settimane prima il generale Hood aveva liquidato il precedente responsabile del corpo di guardia e due altri agenti per aver “fraternizzato” con alcune donne alle loro dipendenze. Era famoso per essere un duro. Al colonnello, Hood aveva ordinatO di tutelare l’incolumità di prigionieri e guardie, di evitare qualsiasi evasione e di studiare la Convenzione di Ginevra sul trattamento dei prigionieri di guerra. Erano trascorsi tre anni da quando il presidente George Bush aveva dichiarato che gli Stati Uniti, dovendo occuparsi di prigionieri nella lotta contro il terrorismo, non si sarebbero sentiti vincolati alla Convenzione di Ginevra. E aveva spiegato che i soldati americani avrebbero trattato i prigionieri in modo “coerente” con le convenzioni, senza tuttavia specificare che cosa intendesse con queste parole. Adesso, pensò Bumgarner, il mandato pareva essere leggermente diverso. A lui si chiedeva di essere più preciso. E la domanda a cui si sentiva di dover dare una risposta era: «Come ci si occupa di qualcuno che il presidente degli Stati Uniti e il segretario della Difesa hanno definito il peggio del peggio?». A quel punto, nella primavera del 2005, il colonnello aveva poco tempo per riflettere su una risposta. Le tensioni nel campo erano frequenti. La maggior parte dei 530 prigionieri reclusi a Guantanamo era classificata non collaborativa, “ribelle”. I due blocchi di isolamento, nel quale erano reclusi i prigionieri che avevano assalito le guardie, erano al limite della capienza. Altrettanto accadeva negli altri due blocchi nei quali i prigionieri erano chiusi per infrazioni meno gravi. I prigionieri talvolta colpivano per ore e ore la rete metallica delle loro celle, seguendo un ritmo che cresceva e si ripercuoteva in alto, sopra al filo spinatO nella densa aria tropicale. Ogni tanto cercavano di colpire le guardie con i rinforzi metallici degli appoggia-piedi strappati dai loro bagni alla turca, oppure, per provocare i militari più inesperti, li bersagliavano di escrementi. Quando Bumgarner ha assunto il comando di Guantanamo, già emergeva che molti dei prigionieri non erano gli spietati terroristi dipinti dal Pentagono. Il colonnello non dubitava che fossero pericolosi, ma non era diffidente nei loro confronti e avrebbe voluto conoscerli meglio. Nei blocchi di Camp Delta, il nucleo centrale della prigione, aveva cercato di instaurare un rapporto con i prigionieri più influenti: quelli che si proponevano come portavoce dei reclusi; quelli che si sforzavano di parlare inglese; quelli che apparivano i leader religiosi, o “sceicchi”, che davano le loro opinioni su questioni inerenti alle leggi islamiche. «Cercavo il sistema di avere un campo pacifico, come voleva il generale Hood», racconta Bumgarner. E il suo messaggio iniziale rivolto ai detenuti era statO semplice: «Intendo concedervi alcune cose e migliorare le vostre condizioni di vita, ma voi dovete ricambiare». Ovvero: non attaccate le guardie. Bumgarner è un uomo grosso, dalla calvizie incipiente, loquace, che parla con lieve accento strascicato della Carolina e porta in giro senza fatica i suoi 125 chili di peso, distribuiti su un’altezza di circa 186 centimetri. È figlio di un sergente di carriera dell’Esercito ed è cresciuto in una famiglia dove servire come militari è considerato un dovere innato. Come scontata fu la sua richiesta di ammissione a West Point. Al pari di molti altri ufficiali della polizia militare, era rimasto molto turbato quando, nel maggio 2004, era scoppiato lo scandalo di Abu Ghraib, ed era determinato a cancellarne il ricordo.
I prigionieri non reagirono come le autorità auspicavano. Alla fine di giugno 2005, due mesi dopo che Bumgarner aveva assunto il comando, alcuni prigionieri iniziarono uno sciopero della fame, chiedendo migliori condizioni di vita, un trattamento da parte delle guardie più rispettoso nei confronti del Corano e, cosa ancora più importante, un processo equo o la scarcerazione. Subito dopo l’inizio della protesta, Bumgarner era stato avvertito di un problema sorto a Camp Echo, un gruppo di celle più isolate, all’estremità orientale del centro di detenzione. Il problema era un saudita di 38 anni, Shaker Aamer, il prigioniero numero 239, quello che le guardie chiamavano “Il Professore”. I militari si erano meravigliati del suo inglese, scorrevole ed eloquente, e del suo aspetto distinto. Alcuni agenti dell’intelligence ritenevano che egli fosse un importante uomo di al Qaeda a Londra, dove aveva vissuto e si era sposato prima di trasferirsi in Afghanistan nell’estate del 2001. Aamer, invece, negava di avere a che fare con al Qaeda o con il terrorismo. Il Professore stava creando problemi alle guardie, istigando gli altri detenuti alla disobbedienza civile.
Bumgarner si decise di affrontare Aamer. Entrò nella piccola stanza bianca da ospedale dove era seduto sulla sua cuccetta, furente dietro la rete metallica che lo teneva in gabbia in un angolo, e gli gridò: «O cominci a obbedire alle regole o la vita diventerà davvero dura per te!». Aamar, che portava una barba nera molto spessa e i capelli legati all’indietro e raccolti in una coda di cavallo, non si fece impressionare. Strizzò gli occhi per leggere il cartellino con il nome dell’ufficiale, e disse: “Colonnello, non se ne venga fuori con discorsi del genere». Bumgamer allora si sistemò su una sedia di plastica e Aamer iniziò a parlare della propria vita. Della famiglia, del suo viaggio in Afghanistan, di quello che provava nei confronti degli Stati Uniti. E rivelò di aver lavorato come interprete per i soldati americani in Arabia Sa udita durante la prima guerra del Golfo. Poi la conversazione si incentrò sulle idee di Aamer in merito alla detenzione e su come migliorarla. Le idee del saudita non erano molto dissimili da quelle di Hood. Bumgarner ricorda: «Il suo suggerimento era che, se si fossero applicate in pieno le Convenzioni di Ginevra, tutto al campo avrebbe funzionato come doveva».
Nell’ambito del tour che l’Esercito offre a Guantanamo, i visitatori sono accompagnati fino all’estremo lembo nord-orientale della base navale dove si trova la prigione. I visitatori si fermano lì, su una collinetta che affaccia su un cancello sprangato attraverso il quale si passa nella parte dell’isola appartenente a Fidel Castro. Gli Stati Uniti non si sono mai ritirati neppure di un centimetro dalle 45 miglia quadrate che occupano dal 1903 in base a un accordo di affitto molto controverso, all’indomani della guerra ispano-americana. Nel Paese delle Metafore più Ambigue che è la Baia di Guantanamo, il messaggio che si vuole lanciare con questo tour è evidente: gli Stati Uniti in passato qui hanno combattuto un nemico pericoloso e implacabile, in un’altra guerra che pare non avesse mai fine. E se non avessimo resistito tenendoci questo territorio, il mondo adesso sarebbe peggiore.
Nonostante le forti critiche che si è attirato, il campo di Guantanamo ha dimostrato di essere una delle istituzioni più resistenti della lotta dell’ Amministrazione Bush al terrorismo. Scandali e abusi sui prigionieri si sono succeduti uno dopo l’altro, ma Guantanamo è ancora qui. Quando il6 settembre il presidente Bush ha annunciato dei cambiamenti sostanziali in merito alla detenzione e alla messa in stato d’accusa dei sospetti di terrorismo, egli ha detto che il governo «si muove nella direzione di poter un giorno chiudere la struttura carceraria della Baia di Guantanamo». Di fatto, anche se sempre più prigionieri sono rispediti a casa e decine di loro sono sottoposti a processo, gli Stati Uniti potrebbero ritrovarsi con centinaia di detenuti da custodire a tempo indeterminato senza che nessuna imputazione sia stata formulata a loro carico. A ogni buon conto, Guantanamo è stata teatro di un feroce scontro tra prigionieri e guardie. Solo di alcuni sporadici episodi si è venuti a conoscenza, come il suicidio di tre detenuti a giugno. Visto che gli Stati Uniti continuano a custodire a Guantanamo a tempo indefinito circa 460 uomini, dei quali solo dieci sono stati ufficialmente incriminati, non stupisce il fatto che l’apparato militare abbia cercato di tenere sotto silenzio quanto avveniva in questo campo. Invece di smantellare Guantanamo, l’Amministrazione ha cercato di rimpicciolirla e di renderla meno riprovevole. Le rovine di Camp X-Ray, la struttura provvisoria nella quale furono tenuti in gabbia i primi prigionieri, si ricoprono di vegetazione e stanno per essere inghiottite dalla giungla. Le guide che accompagnano i visitatori nei tour le mostrano, a riprova dei progressi effettuati a Guantanamo. All’interno del campo, un’area circondata da barricate nell’obsoleta base navale risalente agli anni ’50 dove i soldati quando non sono in servizio giocano a softball e si fermano a mangiare da McDonald’s, le guide mostrano il Campo 6, una nuova struttura da 30 milioni di dollari, che riproduce in tutto e per tutto una prigione distrettuale del Michigan. «Ogni Paese ha un suo modo di torturare la gente”, ci ha detto dopo essere stato rilasciato Rustam Akhmiarov, un russo di 26 anni arrestato in Pakistan e finito a Guantanamo: « In Russia ti picchiano subito, fino a farri cedere. Ma gli americani hanno il loro sistema, che è quello di farti impazzire. E ogni giorno escogitano un metodo per farti sentire peggio». Prima dell’incontro con Aamer, Bumgarner si è imbattuto in un prigioniero molto alto, con gli occhi spalancati, che urlava contro le guardie in un inglese dall’ accento britannico. Non era chiaro quale fosse il problema, ma quando il Colonnello glielo ha chiesto, l’uomo si è immediatamente calmato: «Siete voi a crearci questi problemi trattandoci in un modo sbagliato», ha detto. Due giorni dopo, Bumgarner si è fatto portare dalle guardie quel prigioniero nel blocco Juliet, un piccolo cortile recintato dietro il centro di comando, dove i rappresentanti della Croce rossa possono incontrare i detenuti presso alcuni tavolini. Il colonnello ha chiesto a una guardia di liberare il prigioniero dalle manette, spiegando: «Li mette di umore migliore per parlare».
Il prigioniero numero 590, Ahmed Errachidi, era un marocchino di 39 anni, che aveva vissuto 17 anni a Londra. Aveva lavorato come cuoco in una catena di ristoranti prima di partire per l’Afghanistan dopo che gli Usa avevano iniziato a bombardare quel Paese nell’ottobre 2001. Le autorità militari lo hanno accusato di far patte di un gruppo islamico di estremisti marocchini e di aver frequentato un campo di addestramento di al Qaeda in Afghanistan, imputazioni che i suoi legali hanno contestato. Agenti dell’intelligence ci hanno riferito di non considerarlo un detenuto di grande importanza, e hanno sottolineato che era stato ricoverato in ospedale per una crisi maniaco-depressiva. Le guardie, impressionate dal carisma che emana, lo hanno soprannominato “il Generale”. Durante gli incontri con Bumgarner, Errachidi ha elencato le lamentele dei detenuti. Ha detto che l’acqua aveva un sapore disgustoso e il cibo era terribile. I prigionieri erano incolleriti dall’abitudine delle guardie di camminare rumorosamente nei corridoi durante le preghiere e ancora più furiosi quando l’inno americano risuonava ad alto volume dagli altoparlanti della base proprio durante il rito serale della preghiera o subito dopo. E poi non tolleravano di essere chiamati “pacchi” dai militari: «Noi non siamo pacchi», ha protestato Errachidi con il colonnello, «ma esseri umani».
Le guardie di Guantanamo non erano abituate a vedere il loro comandante conversare con i prigionieri, né capivano perché dovessero essere proprio loro a discutere delle Convenzioni di Ginevra e se i prigionieri avessero o meno il diritto di eleggere loro rappresentanti o di frequentare programmi educativi. Se i sottoposti di Bumgarner apparivano a disagio, la task force dell’intelligence che operava a Guantanamo era furiosa. Tra le due unità di militari c’erano sempre state tensioni, ma questa volta i membri del Joint Intelligence Group erano imbufaliti perché, se vi erano privilegi da accordare ai prigionieri, erano coloro che conducevano gli interrogatori a dover decidere a chi elargirli, in cambio di collaborazione. Prima della missione a Cuba, i superiori militari di Bumgarner gli avevano fatto presente che egli avrebbe dovuto attenersi alle sue responsabilità e lasciare che le sue contro parti nell’intelligence si occupassero degli interrogatori e delle analisi. Bumgarner non aveva nutrito dubbi al riguardo, ma era uscito dal sentiero battuto: «Sono io a dirigere il campo», aveva detto. Bumgarner si era così deciso a cercare di risolvere i problemi che aveva rilevato. Aveva dato istruzioni alle guardie di smettere di riferirsi ai detenuti con il termine di “pacchi”. Nei blocchi che hanno iniziato a collaborare ha dato l’ordine di abbassare le luci tra le 22 e le 4 di notte e di smettere di spostare i detenuti in quelle stesse ore per consentire loro di dormire. Per evitare di disturbare le loro preghiere ha impartito l’ordine alle guardie di sistemare dei coni gialli, tipo quelli che si usano per il traffico, con una grande “P” dipinta con vernice spray, nei corridoi e nelle sale durante i momenti di preghiera dei detenuti. Ha poi chiesto ai suoi collaboratori di fare in modo che l’inno “Tbe Star-Spangled Banner” fosse suonato almeno tre minuti prima del richiamo alla preghiera.
«Quei blocchi di celle sono concepiti per non far riposare chi vi è rinchiuso», dice Mohammed al-Daihani, contabile governativo originario del Kuwait che è stato rimandato a casa lo scorso novembre: «C’èmetallo ovunque e qualsiasi cosa cada in terra fa rumore. Se qualcuno grida o parla ad alta voce, disturba tutti gli altri. Se c’è un problema alla fine del blocco, lo si sente ovunque e non è possibile riposare. Dopo due o tre settimane si ha l’impressione di perdere la ragione».
Anche se i detenuti provenivano da oltre tre dozzine di Paesi diversi, a Guantanamo c’era una sola vera gang. Le autorità erano convinte che fosse controllata da membri di al Qaeda. In uno studio dell’agosto 2002 della Cia, si legge che gli agenti erano certi che gli appartenenti ad al Qaeda detenuti a Guantanamo avevano ben presto iniziato a « eleggere leader dei vari blocchi di celle e a dividersi le responsabilità tra vice, così da accogliere i nuovi arrivati, valutare gli interrogatori, monitorare le guardie carcerarie e fornire supporto morale ai loro compagni detenuti». Alcuni settori del campo erano più facili da gestire di altri. Le guardie consideravano i 110 afgani rinchiusi all’epoca a Guantanamo come i detenuti più disposti a collaborare. Riempivano buona parte del Campo 4, l’ala più nuova, il Livello 1 dei detenuti “molto collaborativi”; a loro era consentito di vivere in baracche comuni, prepararsi da soli il cibo e spostarsi liberamente all’interno di piccoli cortili ricreativi. La maggior parte Una guardia mostra come i detenuti devono tenere le mani degli altri afgani erano reclusi al per essere ammanettati prima di uscire dalle loro celle Campo 1, quello concepito per il Livello 2, per i detenuti “collaborativi”. Soltanto un esiguo numero di loro era recluso nel Campo 5, l’area di massima sicurezza. Numerosi ex detenuti hanno sottolineato che non era al Qaeda a tenerli uniti quando erano a Guantanamo, bensì un comune nemico. Con le modalità tipiche di ogni prigione essi avevano messo a punto sistemi e stratagemmi molto ingegnosi per comunicare tra loro e organizzarsi. Attaccavano i loro messaggi a lunghi fili dipanati dai loro abiti e li attaccavano per mezzo di palline di dentifricio secco per poi lanciarli verso le celle vicine. Urlavano all’interno delle condutture idrauliche per parlare da un piano all’altro del braccio di massima sicurezza. E quanto più aumentava la loro frustrazione, tanto più migliorava la loro abilità nell’organizzarsi.
Lo sciopero della fame al quale ha dovuto far fronte il colonnello Bumgarner alla metà del giugno 2005 stava degenerando rapidamente, al punto da costringere i medici all’alimentazione forzata dei detenuti per mezzo di tubi nello stomaco. L’ufficiale medico capo, il capitano della Marina John S. Edmondson, era preoccupato e temeva di dover nutrire a forza un gran numero di prigionieri. Bumgarner si è subito rivolto ad Aamer, che scioperava più o meno dalla data del loro primo incontro a Camp Echo. In quel primo incontro, ci ha riferito Bumgarner, «il prigioniero ha cercato di convincermi di essere in grado di tenere le cose sotto controllo nel campo». Alla fine Bumgarner ha deciso di prendere in considerazione le sue proposte e ha chiesto che cosa pensava che ci sarebbe voluto per porre fine allo sciopero della fame. Aamer ha riassunto le sue conversazioni con Bumgarner in una dichiarazione datata 11 agosto 2005 che più tardi ha consegnato al suo avvocato, Clive Stafford Smith. In quel documento egli afferma che quanti facevano lo sciopero della fame pretendevano la fine del “piano segreto di abusi del Camp 5” (che egli non spiega), e volevano che i detenuti fossero sottoposti a processo oppure liberati. Nel frattempo, chiedevano condizioni di vita e assistenza sanitaria migliori. Aamer ha scritto che il colonnello gli aveva promesso che «alla fine a Guantanamo si sarebbe fatta giustizia». Per l’avvocato, Aamer «era giunto alla conclusione che di quell’uomo poteva fidarsi». Così Aamer propone a Bumgarner: « Se mi fai fare un giro nel campo, posso cambiare radicalmente le cose». Il colonnello accetta e Aamer interrompe lo sciopero.
Non c’erano precedenti di consultazioni tra detenUti con tanto di accompagnatore, ma il 26 luglio 2005 il numero di prigionieri che si rifiutava di alimentarsi era di 56 e i medici erano molto preoccupati. La sera stessa del 26 luglio, ricorda Bumgarner, alcune guardie fanno uscire Aamer dall’ospedale e lo portano nel Campo S, l’imponente unità di massima Sicurezza, per un appuntamento con lui. Una volta varcate le pesami porte, i due passano da un blocco di celle all’altro, e Aamer parla con alcuni dei detenUti più autorevoli. Prima di tutto con Sa ber Lahmar, uno studioso islamico nato in Algeria e arrestato in Bosnia per presunta complicità nell’attentato contro l’ambasciata americana di Sarajevo. Accompagnato dal colonnello e da un interprete militare, Aamer attraversa tutti i bracci del carcere, accucciandosi a parlare ad alcuni detenuti attraverso le fessure dalle quali ricevono il cibo. L’ultima tappa è la cella di Ghassan al Sharbi, un saudita di 30 anni che studiava ingegneria elettronica a Prescott in Arizona. Al-Sharbi, più tardi incriminato dal tribunale militare di essere entrato a far parte di al Qaeda e aver confezionato le bombe utilizzate negli attentati in Afghanistan, era riluttante a interrompere lo sciopero della fame. Quando finalmente ha acconsentito, gli altri lo hanno imitato. Allora il colonnello e il suo prigioniero si sono diretti verso i Campi 2 e 3. Mentre emravano in alcuni dei blocchi, Bumgarner nella sua uniforme mimetica, Aamer con le manette ai polsi fissate a una catena chiusa intorno alla vita, dalle celle è partito un fragoroso applauso. «In alcuni dei posti nei quali ci siamo recati lo hanno trattato come una rockstar”, ricorda Bumgarner: «Non avevo mai visto prima degli uomini fatti, grandi e grossi, con la barba, uomini duri, scoppiare a piangere alla sola vista di un altro uomo».
Ex detenuti che hanno assistito a quegli incontri ci hanno raccontato che Aamer parlando in arabo ha proposto loro di porre fine allo sciopero della fame, spiegando che anche altri detenuti del Campo 5 erano d’accordo. In cambio, le autorità avevano promesso di cercare di risolvere i problemi posti dai detenuti e di rispettare le Convenzioni di Ginevra. La maggior parte dei prigionieri interruppe lo sciopero. I problemi disciplinari nei blocchi ebbero fine e in tutti i campi l’umore e l’atmosfera migliorarono sensibilmente. Bumgarner definì questo intermezzo “il periodo della pace”.
Pochi giorni dopo, nel piccolo cortile recintato del blocco Alpha, dove erano stati collocati due tavolini da picnic, cominciano i “colloqui di pace”. Da una parte Abdul Salam Zaaef, ex ministro del governo talebano di Kabul e ambasciatore in Pakistan, leader indiscusso dei prigionieri afgani a Guantanamo; Ala Muhammad Salim, un leader religioso egiziano assai influente nel campo, noto con il nome di sceicco Ala; Sa ber Lahmar, studioso algerino; Ghassan al-Sharbi, ingegnere saudita; e Adel Fattoh Algazzar, ex ufficiale dell’Esercito egiziano con un master in economia. Dall’altra Bumgarner e i suoi. il generale Hood era palesemente a disagio per queste trattative. Ma, sottolineano numerosi ufficiali, le trattative non ci sarebbero state se Hood non le avesse approvate.
Il colonnello così riassume il suo messaggio ai rappresentanti dei detenuti: «Voi siete qui e io sono qui. Avete la mia attenzione. Ditemi quali sono le vostre lamentele e ci adopereremo insieme per risolvere i problemi. Questo posto non chiuderà, quindi faremmo bene a renderlo un cortile recintato. Un paio di interpreti dell’Esercito si sono sistemati accanto a loro per controllare quello che si dicevano. Secondo sia Zaeef che le fonti militari, i prigionieri hanno usato carta e penna distribuite loro per scrivere appunti. Un agente che li osservava li ha interrotti, dicendo che non dovevano passarsi gli appunti. Ma loro hanno insistito. Non appena l’agente ha cercato di confiscare i loro appunti, alcuni detenuti li hanno ficcati in bocca e li hanno ingoiati. A quel punto Hood ha ordinato che quell’esperimento avesse immediatamente fine. «Questo gruppo non si riunirà mai più», il colonnello ricorda di avergli sentito dire. «E lei non si incontrerà più con loro», ha detto poi rivolgendosi a Bumgarner. Così il “periodo di pace” si chiude bruscamente. Un paio di giorni dopo l’interruzione dei colloqui, nei Campi 2 e 3 scoppiano tafferugli. Decide di detenuti fanno a pezzi le celle, strappano i supporti metallici delle latrine e li adoperano per cercare di abbattere le reti metalliche che li separano. Le guardie vengono schierate intorno al perimetro dei blocchi. L’erogazione dell’acqua e dell’elettricità è interrotta. Bumgarner afferra un megafono e con un interprete arabo cerca di persuadere i detenuti a lasciarsi accompagnare fuori dalle loro celle distrutte. Le riparazioni hanno richiesto settimane intere. Poi la protesta è ripartita e ha raggiunto il suo picco intorno all’Il settembre 2005, quando 131 detenuti hanno rifiutato i pasti.
Quando i medici iniziano a nutrire a forza con le cannule i prigionieri più recalcitranti, si capisce subito che lo staff medico non era in grado di fronteggiare la situazione. Alcuni specialisti vengono fatti arrivare dalle navi ospedale della Florida. La maggior parte dei detenuti mantiene il proprio peso corporeo intorno all’80 per cento del peso ideale. Ma a mano a mano che lo sciopero continua, alcuni detenuti dimagriscono fino al 75 o persino sotto al 70 per cento del peso. Ai detenuti che rispettano le regole gli agenti assicurano nuovi benefici. Viene aumentato il tempo per stare all’aria aperta e praticare ginnastica. Su disposizione di Hood, nei periodi di ricreazione i detenuti ricevono Gatorade e barrette energetiche. Il mercoledì sera, pizza. Mentre da un lato aumentano i benefici ai detenuti che collaborano, dall’altro Bumgamer si adopera pér frenare i comportamenti ribelli. I blocchi dell’isolamento vengono ristrutturati. La disciplina si fa più rigorosa, le guardie più inflessibili. Quando i detenuti in isolamento urlano per cercare di comunicare tra loro, le guardie accendono potenti e rumorosi ventilatori per coprire le loro voci.
Alla fine di novembre, mentre molti dei digiunatori continuano a mantenere il loro peso, quattro o cinque di loro diventano pericolosamente denutriti, racconta il dottor Edmondson. Risucchiando il cibo dalle loro cannule di alimentazione avevano scoperto di poter estrarre ed eliminare il contenuto del loro stomaco. Altri, più semplicemente, vomitavano dopo essere stati alimentati. 115 dicembre le guardie ordinano cinque sedie di contenzione. Se i detenuti più ostina ti vi fossero stati legati durante e dopo la loro alimentazione forzata, così speravano le guardie carcerarie, si poteva essere sicuri che avrebbero digerito ciò che veniva loro somministrato. Alcuni giorni dopo uno psichiatra della Marina arriva a Guantanamo con al seguito tre esperti del Bureau of Prisons del Medicai Center del Missouri. Bumgarner dice che i medici erano d’accordo con lui che lo sciopero era diventato una “faccenda disciplinare”: «Se non si mangia è come commettere un tentativo di suicidio. E questa è una violazione delle regole del campo». Gli avvocati dei detenuti hanno riferitO inorriditi che i loro clienti dicevano di essere stati legati a quelle sedie per molte ore, anche se si defecavano o urina vano addosso.
Mentre ad aprile si prepara a lasciare il comando al contrammiraglio Harry B. Harris J, il generale Hood si mostra ottimista per il futuro: ( Sei settimane dopo, mentre le guardie del Campo 1 pattugliano uno dei blocchi, trovano un detenuto in fin di vita sul pavimento della sua cella, con la schiuma alla bocca e i sintomi di un’apparente overdose. «Snowball», urla più volte la radio delle guardie carcerarie, una parola in codice che significa “tentato suicidio”. Nel complesso si scopre che cinque detenuti hanno ingerito delle medicine di cui avevano fatto scorta e che almeno tre di loro avevano seriamente tentato il suicidio Quello stesso pomeriggio del 18 maggio, sul tardi, tra i detenuti del Campo 4, i “più collaborati vi”, scoppia una rivolta mentre le guardie perquisiscono i loro dormitori e le loro copie del Corano alla ricerca di pillole e altri generi nascosti. In seguito i medici hanno appurato che i detenuti avevano ingerito sonniferi, ansiolitici e antipsicotici, tutto quello su cui erano riusciti a mettere le mani. Poiché a
nessuno di loro erano stati prescritti quei farmaci, era evidente che altri detenuti li avevano aiutati.
Alla mezzanotte del 9 giugno, tre giovani arabi reclusi nel Campo 1 annodano dei cappi con delle corde che avevano intrecciato con strisce di lenzuola e vestiti. Le forti luci erano state spente per la notte, ma nell’oscurità i tre hanno dovuto lavorare velocemente perché le guardie dovevano attraversare il blocco ogni tre minuti. Dopo aver attaccato i cappi alla rete di metallo delle loro celle, i tre – Mani al-Utaybi e Yasser Talal al-Zahrani entrambi sauditi, e lo yemenita Ali Abdullah Ahmed – si impiccano. In una conferenza stampa organizzata qualche ora dopo, il nuovo comandante di Guantanamo, l’ammiraglio Harry Harris, ha descritto l’accaduto come un atto di “guerra asimmetrica”
Alla fine di giugno abbiamo incontrato il colonnello Bumgamer mentre si accingeva a passare le consegne al suo successore. Era stanco, stressato. E preoccupato: aveva forse sbagliato tutto con i prigionieri con i quali aveva tentato di instaurare un rapporto? «Abbiamo cercato di migliorare le loro condizioni di vita quanto più ci è stato possibile, forse andando anche oltre, non riconoscendo la vera natura delle persone con le quali abbiamo avuto a che fare. Pensavo che si fossero aperti. Mi vergogno ad ammetterlo, ma non ho mai pensato che si sarebbero suicidati». In linea generale, ora la situazione a Guantanamo si sta inasprendo.
Dopo la rivolta di maggio e i suicidi, le guardie hanno aumentato la sicurezza. E via via che la popolazione di Guantanamo si riduce ai più duri, i privilegi e le libertà si restringono. Un indizio ci può dire quale sarà il futuro di Guantanamo: le modifiche apportate al Campo 6, la nuovissima struttura di “media sicurezza” che doveva essere inaugurata la scorsa estate. Fino alla primavera scorsa pareva che il nuovo campo dovesse incarnare le condizioni che Bumgarner sperava di instaurare, con spazi per consumare i pasti in comune e vaste aree ricreative. Quando lo si inaugurerà, ha detto una fonte militare, apparirà del tutto simile al Campo 5, l’unità di massima sicurezza.

~ “New York Times Magazine” – “L:espresso”

traduzione di Anna Bissanti