San Cesareo nei Castelli – Rom, Sala del ristorante Torraccio, sulla via Casilina.
Giovedì 18 Dicembre a San Cesareo si è tenuta un’iniziativa organizzata da “l’ernesto”, con l’adesione del Prc e del PdCI, su: “crisi, attacco al lavoro, ruolo e proposte dei comunisti”.
L’evento è stato promosso dal circolo di Rifondazione Comunista di San Cesareo e presieduto dal compagno Antonio Pisa, segretario del circolo.
Nella sala grande del ristorante Torraccio c’erano circa 150 compagni/e, le sedie piene…qualcuno era in piedi.
Tra gli oratori Oliviero Diliberto, segretario nazionale del Pdci, Roberta Fantozzi, della segreteria nazionale di Rifondazione, Fosco Giannini della Direzione Prc, Gualtiero Alunni, del Comitato politico nazionale di Rifondazione Comunista e Fabrizio Tomaselli, lavoratore cassintegrato Alitalia dell’Sdl, sindacato dei lavoratori, una sigla del sindacalismo di base.
Hanno portato i saluti all’iniziativa i segretari delle Federazioni dei Castelli di Prc e Pdci, Danilo Marra e Giovannino Sanna.
Erano inoltre presenti segretari dei circoli territoriali dei Castelli di entrambi i partiti. Ma anche e soprattutto tanti compagni di base dell’uno e dell’altro partito, simboli in carne ed ossa del desiderio e della volontà di unire i comunisti.
Apre la relazione di Gualtiero Alunni, che indica nella lotta sociale il terreno in cui praticare l’unità dal basso delle forze comuniste di fronte a questa crisi drammatica che rievoca il 1929 (solo che mentre allora i primi a gettarsi dai grattacieli di New York erano i manager, il caso Alitalia ha già prodotto il suicidio nei giorni scorsi di due hostess, di due lavoratrici rimaste senza lavoro), concentrando gli sforzi nella difesa delle fasce dei lavoratori tutti e in special modo di quelli precari, dei lavoratori dei call center, dei lavoratori a progetto, co. co. co, che magari laureati, prendono stipendi di 600 euro al mese. Parla del caso Alitalia, dei manager inquisiti, del contratto C.A.I, della disarticolazione del contratto nazionale. Si deve ridare dignità al lavoro e lottare per la ricostruzione di elementi di stato sociale e stando nei luoghi del conflitto, tra i lavoratori, organizzando comitati di resistenza popolare contro il carovita, ricostruendo una rete di relazioni e di mutuo soccorso che sia la base per la ricostruzione di un unico e più forte partito comunista, che sia oggettivamente utile ai lavoratori, attrattivo per loro e per i compagni della diaspora.
Una unità dal basso e articolata, unità di chi viene da lontano e vuole andare lontano.
Dopo Alunni è la volta di Roberta Fantozzi, della Segreteria nazionale, che partendo dalla constatazione della debolezza delle forze in campo, si concentra su un’approfondita analisi delle ragioni della crisi, indicando nella diffusione della consapevolezza delle sue cause un elemento di grande importanza per tutti. Il rischio concreto è quello di non riuscire a contrastare un’ uscita a destra dalla crisi, contro la quale i soggetti politici comunisti devono lottare recuperando una funzione sociale. Ricorda che il 25% della ricchezza prodotta a livello mondiale finisce nei paradisi fiscali, e che dunque la responsabilità della crisi va attribuita al modello di sviluppo che l’ha prodotta, come ben sintetizzato dallo slogan “noi la crisi non la paghiamo” espresso dal movimento studentesco.
Una crisi nata in America da un meccanismo perverso, che ha privato i lavoratori di salari e tutele e nel contempo ha preteso che continuassero a consumare a debito; un meccanismo che alla fine si è interrotto, alimentando la crisi dell’economia mondiale.
In America si risponde con un keynesismo padronale che nazionalizza le banche, in Italia lo Stato ha salvato le banche mettendoci i soldi senza pretendere quote di azionariato.
La risposta di spoliazione data dal governo Berlusconi con tagli di spesa da un lato e investimenti nelle grandi opere dall’altro non è la soluzione.
La risposta deve essere quella di rilanciare le forze di opposizione con il massimo di unità possibile tra le forze sindacali, in special modo tra la sinistra Cgil e i sindacati di base, e portare avanti sul piano politico una proposta di rilancio di occupazione e salari a scapito della rendita finanziaria, per una redistribuzione della ricchezza che consenta un’uscita da sinistra dalla crisi.
Ogni iniziativa in questo senso anche tra le forze comuniste, in un contesto processuale, va favorita e rilanciata.
Dopo l’intervento della compagna Fantozzi è la volta di Diliberto, che partendo dalla gravità della crisi – si parla di cifre tra i 900.000 e un milione e mezzo di posti di lavoro che andranno perduti, una crisi che durerà almeno due anni e porterà a modifiche strutturali del sistema Italia, e dalla constatazione che in Italia sarà proprio il governo di Berlusconi a gestirla, ripropone con forza la necessità di unire le forze comuniste per affrontare la crisi ed opporsi alle politiche del governo e all’offensiva padronale.
“La sinistra continua a ragionare in termini di politica astratta e ogni tanto sfida il buonsenso comune, che avrebbe suggerito di fare la riunificazione dei comunisti già ieri”, afferma Diliberto.
La gravità di questa crisi sfugge ancora agli italiani, sostiene.
Il governo Berlusconi produce ogni giorno scene di lotta di classe sul fronte padronale, e ferite istituzionali sul piano democratico.
Ricorda che da quando Berlusconi si è insediato, nemmeno un provvedimento legislativo approvato è stato il frutto dell’iniziativa parlamentare. Tutta la produzione legislativa è stata gestita dal governo, privando il parlamento del suo ruolo costituzionale.
Un parlamento feudale che è il prodotto di una legge elettorale che rende i parlamentari ancora più schiavi delle decisioni delle segreterie dei partiti, che si appresta a varare una controriforma della Giustizia, che è un’ulteriore ferita ad un principio liberale, quello montesquieano della divisione dei poteri.
Se aggiungiamo a questo che l’informazione è quasi totalmente in mano al centrodestra, il quadro risulta ancor più drammatico.
Rispetto alle misure sulle banche, Diliberto, riprendendo la Fantozzi, ricorda come il governo italiano abbia creato azioni speciali per le banche in crisi che non comportano l’ingresso dello Stato nei consigli di amministrazione, laddove invece persino Bush, che non è certo un socialista, ha nazionalizzato le banche e Sarkozy in Francia vuole mettere mano ai fondi sovrani per salvare gli istituti di credito.
Sul Pd, “in crisi verticale”, Diliberto cita i dati abruzzesi che evidenziano un astensionismo enorme dell’elettorato di sinistra del PD, deluso, a fronte del raddoppio dei voti di Di Pietro e di un centrodestra che non ha aumentato i suoi consensi.
Su Di Pietro in particolare Diliberto si sofferma, rilevando come il suo successo sia da ascrivere al fatto che, pur su singoli segmenti e in modo del tutto privo di una sensibilità sociale, Di Pietro faccia realmente opposizione a Berlusconi e su questo costruisca il suo consenso. Ricorda come nelle elezioni politiche 2006 Di Pietro prese meno voti del Pdci, e indica in Veltroni uno dei massimi responsabili di questo aumento di consensi.
Rilevando il risultato abruzzese del Pdci, 1,8%, confrontato con il 2,8% di Rifondazione, “pressoché equivalenti”, rilancia l’ipotesi di riunificare i due partiti .
E chiede apertamente alla Fantozzi quanto si dovrà ancora aspettare…
Ma soprattutto, sostiene Diliberto, la riunificazione è necessaria per ridare una speranza ai militanti dei due partiti e ai comunisti diversamente collocati, per costruire un unico partito comunista che, se non grande, almeno sia meno piccolo e che in prospettiva possa crescere.
Altrimenti il rischio è quello dell’estinzione delle forze comuniste.
Sulle elezioni europee, Diliberto sostiene che indipendentemente dalla legge elettorale sarebbe “scellerato” presentare due falci e martello.
A Rifondazione per la Sinistra, Sd e Verdi ricorda che l’Arcobaleno l’hanno fatto fallire gli italiani, e sarebbe da pazzi tentare oggi di riproporlo.
Quindi è la volta di Fabrizio Tomaselli, ex lavoratore Alitalia ora cassintegrato e sindacalista dell’Sdl, sindacato dei lavoratori, una sigla del sindacalismo di base.
Sulla crisi, sostiene come sia stata il prodotto del fallimento del sistema delle imprese, sostiene che i padroni quando guadagnano poco rubano altre risorse, magari pubbliche, dalle tasche dei lavoratori col pretesto della crisi.
Parlando di Alitalia, che racchiude in sé tutti questi aspetti, ricorda come fino a poco tempo fa fosse diffuso il leitmotiv dei privilegi dei lavoratori come ragione alla base della crisi dell’azienda, quando oggi invece sono le responsabilità dei manager ad essere letteralmente inquisite.
Manager che in 7-8 anni hanno sottratto ben 11 miliardi di euro ai fondi dell’azienda, e che dunque hanno, loro sì, delle responsabilità gravissime della crisi, fatte di scelte sbagliate, voracità, e, oggi, di comportamenti ai limiti della legalità.
Alitalia, sostiene, è un banco di prova di meccanismi che si stanno instaurando ed un laboratorio per un metodo di gestione della crisi da applicare su tutto il territorio nazionale.
A cominciare da quel meccanismo atroce che impone ai lavoratori Alitalia non il licenziamento, ma il trasferimento in una città diversa e magari lontana centinaia di chilometri, costringendo i lavoratori a lasciare il posto di lavoro. Sono licenziamenti mascherati, che non figurano nelle statistiche ufficiali.
E in tutto questo cosa fa il sindacato confederale?
Tomaselli rileva come a livello locale la stessa Cgil abbia accettato misure che a livello nazionale ha rifiutato, come il nuovo modello contrattuale.
Ventimila lavoratori sono stati abbandonati a se stessi, e cita il caso emblematico di lavoratori che recandosi nella sede d’azienda per ricevere la lettera – non sanno ancora se di licenziamento o di riassunzione in C.A.I – non hanno trovato nemmeno un sindacalista confederale ai piedi della scalinata d’ingresso. Nemmeno uno di loro era lì a parlare con i lavoratori, a consigliarli, o a sostenerli moralmente, perché molti di loro erano in lacrime. Perfino sul piano umano la sensazione è quella di una solitudine dei lavoratori, abbandonati a loro stessi.
E i più fortunati, quelli che saranno riassunti in C.A.I. , avranno il 30% di salario in meno e il 30% di lavoro in più.
Meccanismi del genere, sostiene Tomaselli, li vedremo sempre di più su scala nazionale.
E in tutto questo il fior fiore del padronato, a cominciare dalla Marcegaglia, che ha investito in Alitalia, non ci rimetterà una lira e anzi farà ottimi affari, magari utilizzando Alitalia come trampolino di lancio per altre operazioni.
E oltre al vuoto del Pd e del sindacato, dice Tomaselli, abbiamo percepito il vuoto di una sponda politica a sinistra, la mancanza di un punto di riferimento politico per il lavoratori.
Ora qualcosa si sta ricostruendo, ma è impossibile senza contenuti imprescindibili per un partito comunista.
Lo stesso Arcobaleno era privo di contenuti politici, la colpa non era solo di un pessimo contenitore, sostiene Tomaselli. E ripropone la centralità del lavoro, il tema della precarietà, che non è solo precarietà del co.co.co. , è precarietà generale, sociale, del vivere. E se ometti il tema del lavoro non ti radichi socialmente e nel territorio. Tomaselli al riguardo cita emblematicamente, sebbene su presupposti politicamente opposti, il caso della Lega. E cita Liberazione, che al contrario ha fatto una pessima operazione eliminando la pagina del lavoro. Ma come fa, si chiede, un giornale comunista a togliere la pagina del lavoro per dare spazio allo spettacolo?
Si sono persi valori essenziali per un partito comunista, sostiene. Senza questa autocritica non si esce dal guado.
Sulla Cgil Tomaselli evidenzia, a proposito di apparato, che sarà molto difficile, praticamente impossibile, spostare la Cgil su posizioni di classe. Che ci sono 30.000 delegati stipendiati dell’apparato sindacale che se non rispettano le direttive concertative rischiano di ritornare a timbrare il cartellino.
Dunque questo vuoto a sinistra non può riempirlo la Cgil, non può certo riempirlo il Pd, ma solo una forza politica che rimetta al centro il lavoro. E non perché si debba parlare solo dei temi del lavoro, ma perché questo assume, in una giornata fatta di 8 ore di lavoro(se sei fortunato), 8 di sonno e 8 di riposo, una centralità oggettiva nella vita delle persone.
E conclude il suo intervento dicendo:
“Cominciamo dalle persone che lavorano e da quelle che purtroppo non lavorano. Forse in questo modo si potrà ricostruire qualcosa.
Se facciamo la sinistra di spettacolo, questo diventa molto difficile.” E Antonio Pisa ricorda che i comunisti che hanno organizzato l’incontro sono gli stessi che hanno fortemente protestato per la cancellazione della pagina del lavoro dal quotidiano.
Riprende la parola Roberta Fantozzi, per interloquire con gli interventi precedenti, in special modo con quello di Diliberto. Critica l’idea di un ruolo” salvifico del partito comunista unico”, ma al contempo sostiene che l’unità si muove su due terreni. Uno è il piano di tutta l’unità possibile e concretamente praticabile qui e subito, quella delle lotte, delle iniziative comuni. L’altro è il piano dell’unità politica, che è un processo lungo, ma appunto un processo, elemento che la Fantozzi evidenzia rispetto a quello dell’urgenza della riunificazione di fronte alla crisi su cui aveva insistito Diliberto. E, sostiene la Fantozzi, un processo che deve tener conto dei diversi livelli di dialettica interni alle due forze, con particolare riferimento a Rifondazione.
Dopo questa replica interviene di nuovo Antonio Pisa, per precisare che a livello di base, a San Cesareo, l’unità tra le due forze viene già praticata, nelle lotte e nelle iniziative comuni. “Ora aspettiamo che qualcosa dall’alto venga più chiaramente”.
Fosco Giannini, nell’intervento conclusivo, evidenzia come fino a un anno fa, iniziative congiunte come queste, tra Prc e Pdci, fossero impensabili.
Vi sono dei processi carsici, che molti non vedono o vedono poco.
Spesso nei nostri dibattiti parliamo di dialettica: uno dei più grandi studiosi della dialettica di Hegel era Lenin, che guardava ai fenomeni carsici con grande attenzione. C’è insomma un moto, un processo oggettivo che spinge verso l’unità dei comunisti, non solo di Pdci e Prc.
Giannini ricorda l’appello del 17 aprile per l’unità dei comunisti, la discussione apertasi tra la base del PdCI e del Prc e nella diaspora comunista; ricorda il recente editoriale su la Rinascita di Manuela Palermi “Prc e Pdci”, il dibattito che ne è seguito; una serie di incontri come questo in cui compagni di base e dirigenti di alto livello dei due partiti si sono confrontati sul tema dell’unità. C’è una spinta oggettiva, emerge l’idea di sanare le ferite. Giannini cita una situazione analoga, il caso dell’India, poiché anche lì i due maggiori partiti comunisti si pongono il problema dell’unità e c’è un dibattito in questo senso al loro interno.
“C’è un attacco molto duro dell’imperialismo sul piano generale, che pone la questione di sanare le ferite e unirsi, perché il padrone è forte e le forze comuniste non possono essere divise”.
Questa pulsione unitaria prende le forme di un Pdci che dopo il suo congresso si rende pienamente disponibile a questo processo, di parte del Prc che è simpatetica a questa posizione, e soprattutto di un vasto senso comune tra i militanti e all’esterno dei due partiti.
E, ricordando ancora la dialettica, Giannini dice – rivolgendosi alla compagna Fantozzi – che l’unità dei comunisti si fa sì dal basso, ma anche dall’alto e la mancanza di uno dei due corni si impoverisce pericolosamente senza l’altro.
Sulla crisi Giannini sostiene che termini come “crisi della globalizzazione” sono incomprensibili ai lavoratori, non spiegano. E propone una lettura che passa per l’analisi delle contraddizioni interimperialistiche, cioè di una lotta durissima tra poli imperialistici per conquistare i mercati, che prevede nella porzione egemone del capitale una sola ricetta per vincere la concorrenza: abbattere il costo delle merci attraverso tagli ai salari, ai diritti, allo stato sociale.
In questo quadro generale il compromesso tra capitale e lavoro, il neokeynesismo, non è a portata di mano; la fase non spinge ancora i padroni al compromesso. Noi intanto ci dobbiamo battere per i diritti, i salari, per far stare meglio la classe e ricostruire le forze.
Ma non c’è solo la lotta tra i poli imperialistici, c’è la crescita di poli come Cina, Russia e India che mette in crisi l’imperialismo, che risponde come una bestia ferita…
I comunisti devono mettersi alla testa di un lungo ciclo di lotte per cambiare i rapporti sociali, senza scorciatoie politiciste e governiste…che hanno fatto male ad entrambi i partiti. In questo senso non possiamo dare lezioni a nessuno.
E questa crisi paventa un dramma sociale che non è ancora scoppiato pienamente. Incombe il pericolo di centinaia di migliaia di licenziamenti che si andranno ad aggiungere ai 7 milioni e mezzo di poveri. Questo rende evidente l’inessenzialità delle risposte di sinistra moderata, e invece quanto sia necessario rispondere alla lotta di classe dei padroni con la lotta di classe del movimento operaio complessivo…è qui il punto dei comunisti. Noi non siamo comunisti per “tigna”, come disse tempo fa Bertinotti…
Noi siamo comunisti per razionalità, perché vediamo nel progetto comunista il nocciolo di un progetto che è il più avanzato, perché siamo consapevoli dell’impossibilità di continuare in questa vita, perché vediamo un progetto ancora tutto da scrivere…nel socialismo…siamo dunque comunisti per razionalità rivoluzionaria, per capacità di leggere le contraddizioni del capitale, non per coazione a ripetere! Siamo comunisti perché abbiamo un grande passato, una grande lezione politico-teorica.
Oggi abbiamo un Pdci che si rende disponibile a superarsi. Ed è un passo avanti enorme…il congresso del Pdci ci ha fatto un regalo. Dovremmo considerare che tra i 40 mila iscritti del Pdci e gli 80-90 mila iscritti di Rifondazione, già così saremmo potenzialmente un partito di oltre 100.000 iscritti. E l’unità dei due partiti, se praticata a livello di lotte e di iniziative, con una piattaforma sociale comune, sarebbe un’unità importante non solo per le due forze in sé, ma diverrebbe plasticamente attrattiva per centinaia di compagni e compagne che non fanno parte più dell’uno o dell’altro partito. Nella storia complessiva di Rifondazione abbiamo avuto un turnover di oltre 500.000 compagne/i che non hanno rinnovato la tessera. Che fine hanno fatto? Evidentemente non sono state attratte da due forze divise e deficitarie sul piano politico, teorico e del radicamento sociale.
Abbiamo combattuto su posizioni diverse tutti insieme per evitare la liquidazione dell’autonomia comunista. Dobbiamo tenere unita la maggioranza di questo partito per evitare il ritorno a pulsioni liquidazioniste o izquierdiste. E poichè la compagna Fantozzi non ha detto di NO al processo unitario, il nostro compito è far sì che questo processo vada avanti e convinca gli altri compagni della maggioranza.
Alla fine del dibattito, il segretario del circolo ha ringraziato e invitato tutti a rimanere a cena. Moltissimi sono rimasti, molti hanno acquistato l’Ernesto, e tutto si è svolto in un clima di grande sintonia e familiarità.