RELAZIONE INTRODUTTIVA DI MAURO CASADIO AL FORUM SUL PARTITO PROMOSSO DALLA RETE DEI COMUNISTI

Un incontro nazionale sulla questione del Partito è un impegno straordinario al quale si arriva sapendo di non poter dare risposte immediate e dove spesso nel confronto emergono più le divergenze che i punti in comune; cosi come siamo altrettanto coscienti dei nostri limiti, ma anche più complessivamente di quelli dei comunisti nel nostro paese, soggettivi e di quelli prodotti anche da una fase di arretramento storico che non poteva non lasciare il segno.

A fronte, però, di queste difficoltà e rischi oggi ci appare ancora più evidente l’importanza di una forte soggettività politica, e di una sua capacità strategica, che è resa necessaria dalla realtà del nostro paese e dalle contraddizioni di classe che si vanno sempre più manifestando; infatti la spontaneità delle risposte di lotta e di movimento, per quanto fondamentale ed ineludibile punto di partenza, nelle odierne condizioni generali è palesemente inadeguata. Ciò è vero nonostante che la soggettività politica e l’organizzazione siano state idee/forza per lungo tempo demonizzate, anche a sinistra e tra i comunisti, creando una condizione di difficoltà teorica e di diffidenza politica, certamente frutto degli errori e dei limiti emersi storicamente ma anche della introiezione di elementi egemonici propri dell’avversario di classe.

UN METODO DI ANALISI

Nel nostro documento preparatorio abbiamo fatto una sintesi del lavoro da noi svolto negli anni precedenti cercando di dare una visione più organica possibile dei processi storici che hanno riguardato l’evoluzione dei partiti comunisti, in modo inevitabilmente schematico, usando gli strumenti che la nostra storica cassetta degli attrezzi ci fornisce, inclusi quelli leninisti. Ma abbiamo tentato di rifuggire il più possibile dal “mito” del partito, che contraddistingue una parte del movimento comunista, collocandolo invece nella dialettica, talvolta rivoluzionaria, che il capitale ha prodotto nello sviluppo delle forze produttive e nel conflitto di classe reale.

Abbiamo cercato di intrecciare, sintetizzandoli, diversi piani di analisi per cercare di individuare gli elementi che hanno prodotto i passaggi che nei diversi momenti hanno dato vita alle “mutazioni” organizzative e di relazione con la classe. La capacità egemonica della borghesia di contenere o meno la contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione, le modifiche della condizione materiale della classe e della sua composizione, la soggettività del movimento operaio tramite i suoi partiti di tenere testa o meno al conflitto sociale e politico sono gli elementi che abbiamo preso in considerazione nel delineare un percorso storico utile ad individuare un metodo di analisi che, pur mantenendo fermi alcuni riferimenti teorici di fondo, ci metta in condizione di comprendere il nesso tra condizione materiale e maturazione della soggettività qui ed ora, nel nuovo secolo appena aperto.

Questa nostra elaborazione ci ha portato ad una visione critica verso il partito di massa non perché questo sia stato un errore, al contrario è stato nella seconda metà del ‘900 l’espressione della forza del movimento di classe e comunista, ma perché questo, nei modi e nelle forme che oggi concretamente lo caratterizza nel nostro paese, si dimostra sempre più incapace di capire le trasformazioni e di adeguare la propria azione e organizzazione.

Dunque ragionare su un partito di quadri diviene obbligatorio, anche se le difficoltà sono evidenti nel contesto politico e soprattutto culturale odierno per indagare a fondo quali possibilità apre questa opportunità, quali problemi pone e come organizzare una simile ipotesi; tutto ciò sapendo che un tale partito ha come obiettivo principale in questa nostra società italiana ed europea, e dunque imperialista, quello di riconnettere, filo a filo se necessario, quel rapporto con la classe ed il blocco sociale possibile collocandosi comunque dentro una dimensione di massa che da sola e nella sua spontaneità non è in grado di aprire prospettive.

DALL’ALTO E DAL BASSO

In questa introduzione non vogliamo però ripercorrere i passaggi analitici fatti nel documento preparatorio di questo incontro ma vogliamo risalire la “corrente” dei nostri ragionamenti da un altro punto di vista. Parlare del Partito o comunque della soggettività organizzata significa partire “dall’alto” di quelli che sono i rapporti generali nella nostra società e dunque cogliere come elemento principale la funzione che deve svolgere in un determinato contesto storico la suddetta soggettività.

Questo però non può essere l’unico parametro di riferimento nella nostra elaborazione in quanto è necessario anche partire “dal basso” delle condizioni concrete vissute se non si vuole correre il rischio di rimanere chiusi nella sola dimensione dell’astrazione, per quanto questa possa essere necessaria. Se vogliamo, perciò, sostenere la tesi del partito e organizzazione di quadri non possiamo non analizzare anche quegli elementi politici contingenti che ora sono a supporto, dal nostro punto di vista, della necessità di una simile struttura militante.

Sarebbe troppo facile partire dalla constatazione che i partiti comunisti con caratteristiche di massa nel nostro paese, dal PCI a Rifondazione fino al PDCI, si sono avviati o verso il suicidio, come ha fatto il primo, o verso un drastico ridimensionamento politico, come è accaduto per la seconda grazie anche agli effetti della gestione Bertinotti. Riteniamo, invece, necessario andare più a fondo dei motivi politici che pensiamo ora spingano verso la ricomposizione di una soggettività centrata sul ruolo dei quadri, ciò anche perché a fronte della crisi del partito di massa non abbiamo nel nostro paese esperienze militanti in grado di coprire gli spazi lasciati dai partiti comunisti variamente organizzati.

Il punto di partenza è quello di riprendere una analisi da tempo abbandonata ma che ha una valenza fondamentale per orientare l’azione dei comunisti nel nostro paese ed è l’analisi del capitalismo italiano che ci permette di capire le condizioni generali per il nostro agire.

Siamo stati tra i primi, circa quindici anni fa, ad aprire il dibattito sulle nuove forme dell’imperialismo pur essendo in forte controtendenza rispetto alla posizione sull’ ”Impero” che, allora, andava per la maggiore a sinistra e nel movimento. Avevamo individuato la formazione delle aree valutarie in competizione, a partire dalla nascita dell’Euro, come una manifestazione di quella tendenza legata allo sviluppo delle forze produttive, e dunque al superamento dei confini nazionali ma dentro le dinamiche proprie del modo di produzione capitalista. La competizione globale, quella del tutti contro tutti, è oggi sotto i nostri occhi come è sotto i nostri occhi la crisi di un sistema irrazionale che sempre meno riesce a controllare le proprie contraddizioni complessive e non solo sul versante meramente economico.

Questo però è un processo che ha i suoi tempi legati alla possibilità del capitalismo di sostenere ulteriori margini di crescita. Se rapportiamo questa tendenza alla dimensione europea ed al processo di integrazione rimane evidente che i processi economici continentali, grazie all’Euro, sono in fase avanzata, vedi la gestione della crisi finanziaria e quella di alcuni paesi membri della Unione Europea, mentre quelli politici e statuali si presentano molto più complessi e lunghi anche se non certo in controtendenza alla prospettiva della unificazione europea. Ribadiamo la nostra interpretazione la quale intravede nella formazione del polo imperialista europeo, al di là degli inevitabili stop and go a cui assistiamo, l’unica possibilità, per il capitalismo europeo, per sostenere l’accresciuta competizione globale in atto nonostante, per gli stessi poteri forti europei, questi passaggi non sono pianificabili a tavolino.

Riteniamo utile questa puntualizzazione perché la necessità di mettere le “mani in pasta” sull’analisi del capitalismo italiano diventa ineludibile di fronte al rischio di estinzione della rappresentanza politica storica della sinistra ed alla necessità conseguente di rilanciare con forza l’iniziativa politica di classe. Capire le caratteristiche del nostro capitalismo non più slegate e separate dalla sempre più immanente dimensione europea, le trasformazioni della nostra articolata borghesia, gli effetti materiali ed ideologici sui settori sociali intermedi e su quelli più direttamente di classe e collegare tutti questi elementi alle scelte economiche ed istituzionali con le quali ci troveremo a fare i conti nel prossimo futuro sono solo i punti di partenza che ci possono far capire come ritrovare una funzione, vera e non ossificata, ai comunisti in questo paese ed in quale modo questi devono ricostruire un rapporto organico con i settori sociali di classe e con la società più in generale.

IL CAPITALISMO ITALIANO

Non è questa la sede dove fare i dovuti approfondimenti su questo terreno ma è certamente utile oggi delineare a grandi linee il quadro sociale e politico con il quale ci troveremo a convivere i prossimi anni e che può anche essere una buona palestra e una scommessa da fare sul confronto a sinistra e nel movimento. Riuscire a far crescere un confronto di merito su tali rilevanti questioni significherebbe vincere una importante scommessa e rompere con quel tatticismo estremo e quella eccedenza di politicismo che ha portato alla difficile situazione attuale.

Se nel nostro paese la lotta di classe dal basso da circa un ventennio fa i conti con innumerevoli difficoltà quella che viene praticata dall’alto segna sicuramente dei livelli molto forti di determinazione. Inoltre il dispiegarsi della crisi finanziaria ed economica in questi anni segnala anche un conflitto da interpretare tra le varie “frazioni” della borghesia nostrana. Una evidenza, questa, molto utile per capire le dinamiche in atto non solo della struttura del capitale ma della totalità delle relazioni politiche e sociali. Il nostro capitalismo nei decenni post bellici ha seguito le evoluzioni generali dell’occidente ma ha sempre avuto sue peculiari caratteristiche, derivanti, prioritariamente, dal ritardo con cui in Italia la borghesia ha dato vita al suo stato unitario nazionale, le quali hanno contribuito a generare la situazione attuale in cui siamo collocati.

Le famiglie della grande borghesia nazionale da tempo hanno avviato processi di internazionalizzazione che con la crisi si accentuano in cerca di mercati più ampi e di costi del lavoro più contenuti. La scelta della FIAT di chiudere Termini Imerese rifiutando gli incentivi governativi e puntando sul mercato degli Stati Uniti non è un episodio specifico ma il sintomo di una situazione in evoluzione che testimonia come la ristrutturazione trasforma, in primo luogo, anche la dimensione economica e strutturale del sistema delle imprese. Parimenti i processi di finanziarizzazione in cui sono coinvolte le grandi imprese ci mostrano le difficoltà di valorizzazione che incontra il nostro grande capitale sul proscenio della concorrenza globale.

Ci sono, inoltre, altri elementi che dimostrano la continuità dei processi di deindustrializzazione e finanziarizzazione che indeboliscono il ruolo della nostra borghesia nella Unione Europea. L’ipotizzata vendita di Telecom alla consorella spagnola o l’imbroglio fatto sull’Alitalia, che cadrà inevitabilmente nei prossimi anni nelle mani di Air France, evidenziano il ruolo marginale che il nostro grande capitale industriale ricopre nella costruzione del futuro del polo imperialista europeo.

Non è, d’altra parte, un caso che i processi di finanziarizzazione coincidano invece con uno sviluppo delle nostre principali banche che sono proiettate oltre i patri confini. L’Unicredit e Intesa San Paolo si muovono infatti su uno scenario Europeo con una posizione indipendente verso lo stesso governo Berlusconi. Significativa è stata la vicenda dell’emissione dei Tremonti Bonds finalizzati a sostenere le banche nei momenti più neri della crisi finanziaria tra il 2008 ed il 2009. A questo sostegno, peraltro limitato, hanno aderito solo tre piccole banche ed il Monte dei Paschi di Siena. Le grandi banche hanno preferito contare sulle proprie forze nonostante che le loro esposizioni finanziarie verso i paesi esteri, ed in particolare dell’Europa dell’Est, siano una spina nel fianco di non poco conto per la loro stabilità finanziaria nel prossimo futuro.

Un’altra frazione della nostra borghesia “profitta” sui processi di privatizzazione, fatti in particolare dal centro sinistra, mostrando il suo carattere parassitario tanto da poter essere definito come un capitalismo “bollettaro”. Vedi ad esempio Benetton con le Autostrade o le privatizzazioni dei servizi che producono profitti agli azionisti privati grazie all’aumento delle bollette del gas, della luce, dei trasporti, dell’energia elettrica, delle comunicazioni, etc. ed in prospettiva anche del bene comune acqua.

In quest’ambito ricadono anche le politiche delle grandi opere e degli appalti in generale che alimentano questa borghesia parassitaria incapace di competere a livello internazionale e dunque europeo. La corruzione che caratterizza tanto la nostra vita politico istituzionale nasce proprio dal carattere assistito di cui usufruiscono i nostri “capitani d’industria”, coraggiosi come li definì D’Alema, che non sono ricattati dai politici ma sono i corruttori di un sistema politico piegato alla incapacità della borghesia nostrana di fare il suo “dovere” storico.

Infine come battitore libero, unico ma non isolato, c’è l’imprenditore Berlusconi sfuggito agli arresti di tangentopoli nei primi anni ’90 che è riuscito a mettere in piedi un blocco sociale composto dalle piccole imprese in difficoltà, da settori di borghesia professionale e piccola borghesia, da settori di economia criminale e ampi settori popolari e di lavoro dipendente sia al Sud che al Nord, compattati dal ceto politico ex DC e PSI con l’aggiunta della Lega, che è stato un capolavoro politico e culturale sottovalutato dall’arroganza e supponenza dal gruppo dirigente ex PCI ormai divenuto incapace di leggere la società Italiana.

Dietro questa descrizione sommaria della nostra borghesia, delle sue articolazioni e dei suoi conflitti interni c’è però una trama unitaria che sostiene questo impianto distorto del capitalismo nostrano che è il ruolo dello Stato. Tale funzione si è modificata nell’ultimo trentennio ma ha mantenuto e rafforzato la sua missione di sostegno al grande capitale monopolistico. Sostegno che si è evidenziato alle grandi imprese nel momento della esternalizzazione e delocalizzazione, nella cooptazione dei gruppi dirigenti del movimento operaio dei partiti e dei sindacati e che si è replicato nei processi di centralizzazione delle grandi banche ed anche il governo del quasi monopolista Berlusconi non è che un lascito della vecchia gestione della politica.

Per sostegno però non si intende solo quello strettamente economico ma quello legislativo, culturale, politico istituzionale, etc., che ha permesso la riproduzione del sistema complessivamente inteso ma anche delle sue caratteristiche di arretratezza che il nostro paese si trascina nel tempo.

GLI EFFETTI POLITICI E SOCIALI

Si dovrà continuare con questa analisi della nostra ampia ed articolata borghesia, sperando di poterlo fare in modo unitario, ma ora ci fermiamo qui perché è bene mettere in evidenza alcuni effetti rilevanti che vengono prodotti sui settori sociali, ampiamente intesi, che vanno dal lavoro dipendente ”garantito” a quello del precariato fino a settori di lavoro autonomo e di piccola borghesia.

Il sostegno dello Stato ai processi di esternalizzazione e privatizzazione attuati a tutti i livelli del mondo produttivo, nell’industria e nei servizi privati e pubblici, ha prodotto una disgregazione sociale fortissima in linea con i processi mondiali di ristrutturazione. Da noi questa polverizzazione è stata accentuata dalla politica di concertazione che, di fatto, negli ultimi venti anni ha smontato tutti quei “corpi intermedi”, sindacato, associazionismo, cooperative etc., che erano un cemento sociale ed il punto di unione tra il partito e la società concreta, eliminando così la base materiale di ogni possibile coscienza se non di classe almeno democratica e dei diritti. Oggi, inoltre, questi effetti si moltiplicano a causa della trasformazione della crisi finanziaria in crisi sociale tramite la riorganizzazione produttiva che produce l’aumento dello sfruttamento e la riduzione del reddito dei settori sociali subalterni.

Questo disarmo politico, oltre che sociale, è il terreno di coltura del Berlusconismo, infatti la presenza di un tessuto sociale disgregato e orfano di identità porta inevitabilmente alla ricerca del “capo”, cioè di colui che da certezze ed identità. Che questo non sia l’effetto malefico di una persona ma una condizione sociale pervasiva lo dimostra anche la vicenda di Vendola in Puglia dove la sua vittoria contro gli apparati del “partito”, una volta invincibili, è stata interpretata come quella dell’uomo salvifico della sinistra, interpretazione che sappiamo bene essere molto lontana dalla realtà ma che ha contagiato ampiamente gli elettori di sinistra e comunisti.

Questa ricerca del “capo” che unisce il “popolo”, o i vari popoli a seconda dei punti di vista, del nostro paese è la smentita più forte della teoria della necessità dell’unità contro Berlusconi; infatti se le cause sono profondamente sociali e di responsabilità politiche disattese dai partiti di sinistra è evidente che l’unico antiberlusconismo che può funzionare è quello che riesce a smontare il blocco sociale che è stato messo in piedi. Cosa ben diversa dalla prevalente denuncia etica o moralista o giustizialista o democratica che sono la punta di lancia dell’opposizione, inclusa quella dei partiti comunisti, destinata a infrangersi contro gli interessi, reali, indotti ed apparenti, di quel blocco sociale.

Ma al di là degli scenari strettamente politici un altro effetto strategico prodotto è stato quello del bipolarismo, tendente al bipartitismo, che corrisponde alle necessità di stabilità politica del nostro paese in Europa e ad un paese che regredisce sempre più nella sua coscienza sociale e civile. Dunque lo scontro bipolare si svolge dentro il quadro descritto dove gli interessi ed i soggetti in campo sono esclusivamente le “frazioni” della nostra borghesia in assenza del conflitto di classe, e la rappresentanza politica che esiste è organicamente legata a quelle. In questo contesto va letta la necessità di affermare una indipendenza a tutto tondo, dal piano politico a quello istituzionale, da quello organizzativo fino alle risorse di tutti i tipi.

In questo senso va colto un altro dato politicamente utile, poiché la necessità della stabilità politica viene posta soprattutto dall’Unione Europea per sostenere l’Euro è abbastanza evidente, a tutt’oggi, che l’unico che può garantire una continuità di governo in questo paese non può che essere Berlusconi, l’alleanza di centro sinistra, infatti, si è dimostrata rissosa come lo stesso PD. In questa ottica vanno lette anche le recenti posizioni di Tremonti sulle tasse e sulla tenuta dei bilanci pubblici condizioni per la stabilità monetaria chiesta dall’Europa; una svolta di 180 gradi per il nostro ministro del tesoro rispetto alle politiche precedenti invece nettamente anti europee, svolta fatta forse proprio per garantire verso i poteri sovrannazionali il governo Berlusconi fino al 2013.

A MAGGIOR RAGIONE

La necessità di un partito o organizzazione di quadri trova ancora più ragioni proprio a partire da questo contesto difficilissimo che sembra impossibile affrontare senza fare arretramenti continui; passi indietro che portano poi a crisi ancora più profonde, politiche per le organizzazioni ed esistenziali per quei compagni che hanno scommesso negli anni ’90 nella ripresa di una prospettiva comunista ma che oggi si trovano impotenti nonostante che le contraddizioni di questo sviluppo siano sempre più evidenti e destabilizzanti. Eppure non è cosi nel resto del mondo dove la necessità di una alternativa al capitalismo si impone, anche se ancora non ha prodotto ipotesi forti che superino i limiti di quello che è stato il movimento comunista del secolo passato.

Noi, che viviamo nel cuore di uno dei poli dello sviluppo capitalista che ha subito modifiche radicali, non possiamo pensare che queste caratteristiche non spingano verso cambiamenti altrettanto radicali della nostra soggettività organizzata. Affermazione questa che appare come ovvietà ma riscontriamo, purtroppo, che non riesce a farsi strada neanche nelle fila dei militanti ed attivisti politici. In questo senso, secondo noi, si evidenziano alcuni elementi che portano verso una modifica degli assetti organizzativi dei comunisti nella nostra realtà che devono, però, tenere conto di aspetti apparentemente divaricanti. Da una parte mantenere aperta l’ipotesi della trasformazione sociale ma dall’altra saper rapportarsi e crescere in una società in crisi ma profondamente diversa da quella che ha prodotto le precedenti esperienze d’organizzazione della classe. Vorremmo iniziare a definire con chiarezza quegli elementi che “dal basso”, cioè dalla nostra comune percezione oggettiva, spingono verso una organizzazione di quadri piuttosto che verso una struttura politica di massa.

E’, però, bene chiarire prima cosa intendiamo per organizzazione o partito di quadri per evitare interpretazioni riduttive. Tale organizzazione non implica necessariamente un limite “quantitativo” in una accezione settaria, ma vuole indicare la qualità delle relazione interne funzionali ad affrontare la complessità e le difficoltà del reale evidenti ormai a tutti; relazioni, dunque, che sono invece una premessa indispensabile per la crescita. Il carattere di massa proprio nelle relazioni del nostro partito comunista e delle altre organizzazioni della sinistra, decisivo in altre condizioni storiche, non può sopravvivere nelle condizioni avverse che si sono create. Questo considerando anche il palese degrado avuto negli ultimi decenni che rende tale modalità non più adeguata a sostenere una situazione che richiede, invece, progettualità e capacità strategica.

L’incipiente crisi di egemonia. La crisi che si è aperta due anni fa sul piano finanziario è ormai tracimata nella dimensione sociale e, nonostante le molteplici dichiarazioni rassicuranti, segna sempre nuove tappe. Si palesa sempre più come crisi sistemica che prepara una aumentata instabilità ed una tendenza generale all’aumento dei conflitti. Non conosciamo oggi ne gli esiti ne le possibili vie d’uscita, il catastrofismo non è utile, ma quella che si è manifestata è anche una crisi di egemonia del capitale. Questo è ancora più evidente se volgiamo lo sguardo oltre i paesi a capitalismo sviluppato e vediamo le rotture politiche che si stanno determinando nella “periferia”.

“Un altro mondo è possibile” un bellissimo slogan che a circa dieci anni dal suo conio da noi, non solo in Italia ma nell’intero spazio europeo, non si è riempito di contenuti forti ed attraenti. Da noi perché la nostra società e la presente composizione di classe non ha più le caratteristiche operaie della fase precedente; dunque la radicale modifica avuta, e descritta nel documento preparatorio, ci impone di ragionare sui possibili cambiamenti. Bisogna riproporre nel nostro nuovo contesto sociale la capacità di emancipazione che il movimento comunista ed operaio ha avuto nel suo precedente ciclo di affermazione.

Individuare i contenuti ed i percorsi della moderna emancipazione per una società fatta da lavoro dequalificato fuori dalla grande fabbrica, da un livello medio-alto di scolarizzazione e dove la formazione scolastica e scientifica dovrà aumentare, anche alla faccia del Berlusconismo, per non essere penalizzati dalla competizione globale è un compito da porsi. Un tale compito può essere svolto da un partito di massa nell’attuale contesto sociale, con le sue contraddizioni politiche proprie di una società imperialista, oppure è un obiettivo che si può tentare di raggiungere solo con una qualità diversa dell’organizzazione e dell’agire teorico-politico?

La disgregazione e la complessità. Queste condizioni che ci riguardano direttamente con la disgregazione produttiva e la estrema diversificazione delle qualifiche professionali, e dunque della percezione dei lavoratori di se stessi, può arriva a sintesi politica in modo spontaneo e di massa partendo ognuno dalle sue condizioni specifiche oppure c’è bisogno di una capacità strategica di tipo generale? Naturalmente questa capacità non è la lettura sociologica che è a tutti nota ma si tratterà di riuscire ad individuare una prospettiva di ricomposizione che vede tempi, passaggi, energie politiche e risorse da costruire e mettere a disposizione. Una organizzazione basata sull’adesione ai principi generali può raggiungere un obiettivo di questo tipo?

Il rapporto di massa. La conseguenza del punto precedente è avere la capacità di costruire un rapporto di massa con una società articolata e complessa a partire dalla stessa complessità del mondo del lavoro. Complessità che si struttura in modo multiforme anche dentro le nuove aree metropolitane che diventano luoghi di concentrazioni delle contraddizioni. Questa è una funzione concreta che si deve svolgere dentro il tessuto sociale di questo paese con una capacità politica e con una determinazione dei militanti che è venuta meno a causa dei continui arretramenti della sinistra. Anche qui crediamo che il dato della qualità è l’unico che può permettere di accedere alla quantità, una qualità che deve partire da un forte segnale di indipendenza organizzata del movimento di classe inteso nella sua accezione più ampia.

Infine. Ci vorremmo porre, insieme agli altri compagni e organizzazioni politiche, una domanda. E’ credibile una ripresa anche di tipo elettorale, importante in un paese con le caratteristiche sociali e politiche che noi abbiamo rilevato nelle nostre analisi, possa prescindere dall’avvio di questi processi di ricostruzione del rapporto tra le organizzazioni comuniste con la classe ed il blocco sociale nel nostro paese? La nostra opinione, ampiamente confutabile, è che questo non sia possibile. Su una cosa, però, ci sembra che gli eventi degli ultimi anni siano stati molto chiari e cioè che la pratica del tatticismo estremo, che tradotto in contenuti politici significa un depotenziamento della nostra battaglia a tutto campo, nel nostro contesto politico e istituzionale non produce più frutti tali da far intravvedere una ripresa politica possibile.