Dopo aver portato ieri in piazza nella capitale kirghiza decine di migliaia di manifestanti al grido di «vattene! vattene!», l’opposizione al presidente Kurmanbek Bakiev (il «Fronte unito» e il movimento «Per le riforme!») è decisa a continuare a oltranza, con l’obiettivo di costringere alle dimissioni l’inquilino della Casa Bianca (il palazzo presidenziale). A questo fine, secondo un copione consolidato, gli oppositori hanno innalzato già da giorni le loro jurte, le tende tradizionali dei nomadi centrasiatici, nel centro della capitale. Quella di ieri era in effetti solo l’ultima – e la maggiore, anche se forse non così grande come speravano gli organizzatori – di una lunga serie di manifestazioni che si stanno susseguendo nel paese nel clima di caos generalizzato creatosi dopo gli eventi del marzo 2005, quando, sull’onda delle «rivoluzioni colorate» ucraina e georgiana, l’allora presidente Askar Akayev venne messo in fuga e Bakiev risultò eletto al suo posto.
Nei suoi due anni da presidente, Bakiev ha dato prova di non essere in grado di risolvere le molte questioni aperte che incombono sul futuro della repubblica. Le pratiche nepotistiche e la corruzione del precedente regime sono continuate, allargandosi e corrodendo sempre più l’insieme della cosa pubblica. Ma le radici della crisi odierna risalgono alla fine del 2006. Allora, dopo l’ennesimo braccio di ferro con l’opposizione in piazza, Bakiev aveva accettato di ridurre le prerogative della presidenza con l’introduzione di una costituzione di stampo parlamentare. Tuttavia, già alla vigilia del nuovo anno, il presidente ribaltava il compromesso raggiunto e faceva votare dal parlamento (da lui largamente controllato) una nuova carta fondamentale che in pratica restaurava l’egemonia della massima carica.
La crisi è amplificata dal fatto di essere anche un regolamento di conti personali fra Bakiev e l’ex primo ministro Felix Kulov. Figura carismatica, già all’opposizione di Akayev e rinchiuso in carcere, l’ex generale Kulov aveva sottoscritto un patto pre-elettorale per la ripartizione dei poteri con Bakiev, permettendo così la sua elezione nel 2005. Dopo un anno e mezzo d’intesa, Bakiev ha fatto in modo che Kulov non venisse riconfermato dal parlamento dopo aver presentato le dimissioni in seguito alla crisi di fine anno.
L’adesione di Kulov al fronte delle opposizioni ha ridato fiato a queste ultime, portando al confronto oggi in corso. Dopo essere stato emarginato pur rispettando i termini dell’accordo, Kulov nutre ormai la più profonda sfiducia nei confronti del presidente: il che complica la possibilità di raggiungere un accordo fra governo e opposizione. D’altronde quest’ultima ha scelto un approccio prettamente non politico e va avanti a colpi di ultimatum; tutto ciò, insieme alla mancanza di chiari obiettivi per l’avvenire del paese, ha reso ieri inferiore alle attese la mobilitazione di massa a Bishkek. Infatti, se fino a qualche settimana fa sembrava che l’opposizione fosse riuscita a mettere in moto un processo che avrebbe portato alla resa di Bakiev, quest’ultimo è riuscito negli ultimi giorni a confondere le acque nominando premier il 28 marzo Almaz Atanbaev, fino a quel momento esponente di spicco della fronda.
Kulov si è detto fino all’ultimo sicuro della risposta della piazza. Fedele alla sua immagine di «uomo d’ordine», ha assicurato che oggi inizia un «pacifico passaggio di poteri». Dal canto suo, Bakiev si è rivolto al paese promettendo l’applicazione delle «più severe misure» in caso di disordini. Dopo giorni di ansiosa ricerca del dialogo con l’opposizione, questo discorso bellicoso fa trapelare la nuova fiducia del presidente. In ogni caso, la prospettiva di scenari violenti non è troppo remota, tennuto conto della massa di diseredati presente nel paese, da anni ormai disposta a far da manovalanza politica nelle manifestazioni di piazza degli oppositori di turno contro il potere.
In generale tutto il paese vive, per la terza volta nel corso di un anno, col fiato sospeso nel timore che le tensioni della capitale si riflettano sui fragili equilibri regionali, in particolare sulla faglia che lo spacca in due: un nord (con la capitale Bishkek) più segnato dalla modernizzazione sovietica e un sud (con la città maggiore di Osh) patriarcale e più islamizzato. A Osh, da dove proviene l’attuale presidente, la mobilitazione dell’opposizione incontra un forte rifiuto. Se essa avesse successo, il rischio di frattura del paese assumerebbe nuovi concreti contorni – un fattore che accomuna la crisi kirghiza con quella contemporaneamente in atto in Ucraina. D’altronde, lo scontro sulle riforme istituzionali spiega molto relativamente le ragioni dell’attuale crisi. Le sue vere radici stanno nella lotta di clan per la redistribuzione delle risorse, già monopolizzate dal precedente regime, e delle posizioni di potere contese dai gruppi regionali e tribali che frammentano il paese.
E difatti, al di là del desiderio di occupare le stanze del potere, il fronte delle opposizioni non spicca per alcun altro programma.
Tutto fa quindi pensare che il Kirghizistan resterà ancora a lungo in una condizione di crisi che ha ormai assunto un carattere endemico, segnato dal profondo e generale degrado di un paese dove, secondo un recente verosimile sondaggio, un terzo della popolazione pensa solo a come emigrare.
La crisi non incide peraltro sulla presenza militare americana nella base aerea di Manas, la principale base Usa in territorio ex-sovietico (a poca distanza da una base militare russa). Anzi: negli scorsi mesi era venuto crescendo un risentimento di massa contro Washington dopo che un militare americano particolarmente «nervoso» aveva freddato senza apparente motivo un autista locale addetto al rifornimento carburanti della base, ma da quando è iniziato l’attuale ciclo di manifestazioni il tema è uscito dai riflettori mediatici mentre tutte le forze in campo cercano di assicurarsi i favori degli americani. La condizione di caos perdurante pare dunque favorire Washington, allargando i suoi margini di manovra sul paese.