Nel silenzio e nella calura, vuoi vedere che qualche sorpresa l’urna referendaria potrebbe darla. I numeri dicono che solo qua, tra Lombardia, Veneto e parte del Piemonte il “Si” potrebbe vincere dove esiste la questione Nord e un radicamento leghista forte di un milione e mezzo di voti alle europee del 2004 presi dal Brennero all’Emilia (e 60mila voti nel resto d’Italia). Anche contando che alle politiche scorse ha preso circa 1,7 milioni di voti, diciamo che basterebbero un terzo degli iscritti alla Cgil per spuntarla. La domanda allora è quanti di Forza Italia e An sentiranno il dovere del voto del “buon italiano” urlato da Berlusconi? Un calcolo non semplice. Allora proviamo a prendere il referendum al contrario: ma siamo proprio sicuri che il popolo dei sindacati, quello dell’Unione, insegnanti, operai e tutta l’Italia ascritta d’ufficio al fronte del “No” voterà così (se voterà)? Il quesito ha più senso nella presunzione di un Settentrione più produttivo, più lavoratore e moralista che non ha inventato la Lega. C’era già. E ancora oggi nel Nord si scontano le insofferenze ai partiti romani, anche a sinistra. Benché arrivino ministri “in visita”, vale anche per il governo dell’Unione che non ha convinto da queste parti, salvo conquistare tanti voti in dimensioni locali con una forte connotazione come Torino. E’ la frammentazione di interessi, ceti, aspirazioni di un mondo capovolto dove l’operaio diventa più conservatore e localista, mentre il 41% degli imprenditori e liberi professionisti, oltre alla stragrande maggioranza di insegnanti e dipendenti pubblici, scelgono l’Unione. Un po’ anche per la distanza del rito della politica da quello della vita. E poi c’è la crisi, che erode il benessere del ceto medio e popolare della quarta regione d’Europa per ricchezza la Lombardia). Sommate shakerate e poi diteci voi: cosa voteranno al Nord?
Se c’è un ventre molle della politica di sinistra, continuamente sbandierata, sono i lavoratori iscritti alla Cgil e votanti della Lega o chissà cosa. Michela Spera, Segretaria generale della Fiom bresciana, comincia subito col mettere i puntini sulla questione: «Se gli iscritti alla Cgil non votano a sinistra, significa che trovano ragioni sufficienti per stare col sindacato e ne trovano meno per stare coi partiti». Ma il referendum piace agli operai? «Abbiamo fatto assemblee nei luoghi di lavoro con circa 14mila lavoratori e l’elemento dominante è la mancanza di conoscenza, eravamo ancora al pro e contro il governo precedente. Sicuramente le competenze regionali su sanità, scuola e polizia in territorio nordista creano più consenso, ma sui poteri istituzionali e organi di controllo non sembrano esserci dubbi». Se si potessero separare… «La devolution da sola non dispiace, anche se a guardarci dentro è più ideologica che di merito. Se lavori in acciaieria e vedi che c’è un trattamento diverso tra Brescia e Verona, qualche contraddizione in più si apre». Meno peggio del voto politico, dove arriva l’informazione c’è più coscienza.
Il punto è simile per tante categorie, siamo ancora in clima di scontro, come in una partita di calcio semplificata dal “Si” o “No”, il merito conta poco. Vale per tutte le categorie, classi e professioni. Il che la dice forse più lunga di ogni altra cosa su quanto media e politica poco aiutino la comprensione reale delle questioni sul tavolo. La nebbia ha raggiunto il suo apice l’altroieri con l’assessore lombardo della Lega, Davide Boni, che bacchettava i sindacati perché facevano assemblee e volantinaggi per il “No”. La Funzione pubblica si è scaldata sull’argomento referendario e ancora di più la scuola. Qui sorprese non dovrebbero essercene, anche perché finora la Lombardia ha brillato per fondi ai privati e deresponsabilizzazione del ruolo pubblico e basta questo. A meno che la scuola “bosina” per gli “orsetti padani” di Varese dove si impara dialetto e tradizioni vi sembri un modello.
Piace invece la riforma ai commercianti milanesi, feudo storico del centrodestra, anche se l’Unione del commercio ci dice che non si sono occupati molto del tema. Erano più importanti le comunali. «Le nostre piccole e medie imprese sono interessate a un governo territoriale dei fatti commerciali e a una regionalizzazione avanzata – spiega Simonpaolo Buongiardino dell’Ufficio di Presidenza – vale per il fisco come per la scuola, è un principio generale e se vince il “No” ci troveremo in un momento di grande difficoltà». La preoccupazione è che le leggi fatte da Berlusconi vengano “azzerate”, non c’entra con la riforma costituzionale ma dice di una categoria e della sua dimensione politica. Andranno a votare e tra i loro il “Si” fa man bassa. Meno certo, ma identicamente orientato, il consenso industriale. Si sa che il giudizio di Confindustria è bene i principi, male le applicazioni, ma meglio tenersela che rifare tutto da capo. In particolare ai padroni per eccellenza piacciono lo snellimento di parlamentari, quello dell’iter delle leggi, l’uomo forte al comando senza tante storie e la possibilità di trattare meglio opere e appalti sul territorio. Pensando al soldo, in effetti, ne hanno da guadagnare.
A chi sembra non interessi proprio la questione, invece, sono gli agricoltori, alle prese con la grande siccità. Tra Confagricoltura, Coldiretti e Confederazione italiana agricoltori solo quest’ultima è schierata (per il “No”), ma Giuseppe Vitari di Pavia ha l’impressione che «per gli agricoltori il tema sia assolutamente inesistente». Perché? «Il settore agricolo dipende per il 90% da leggi comunitarie e la Regione gestisce già i pagamenti dei fondi, noi con Roma non abbiamo nulla a che fare”. Ma la politica, i Cobas del latte e la Lega? “Il nostro è un settore meno diviso, i problemi sono spesso comuni e semplici: ad esempio, manca l’acqua”. Torniamo in città e proviamo con una categoria che con la riforma ha molto a che vedere: i vigili urbani. Andrea Barbato, del Sin. Cobas, è uno dei leader tra i lavoratori ma il polso della situazione non l’ha chiaro nemmeno lui: «Considerando che sono conservatori e si sentono uomini di legge dovrebbero votare No. Poi nel settore pubblico in generale c’è maggiore consapevolezza che il Sì manda tutto a carte all’aria. Però tanti non disdegnerebbero far parte di una polizia regionale, anche tra i sindacalizzati. Potrebbero esserci più sorprese del previsto». Vedremo, anche se qualcuno che si senta come i Chips californiani a Vidigono Superiore ci sembra fantascienza.
Mancano la sanità, il pezzo da 90 economicamente parlando della riforma. Se la federazione nazionale dei medici chirurghi e odontoiatri non dà indicazioni di voto ma parla di sistema sanitario, solidarietà, equa distribuzione, efficienza, tutto declinato al nazionale, a Milano non si ottiene dai responsabili dell’ordine più di un “non ne abbiamo parlato”. Ma vi converrebbe la devolution così fatta? “Non posso rispondere”. I maligni dicono di sì. Che l’elite dei medici del Nord ci spera e voterà “Si”. Chi ne ha parlato del referendum, invece, sono lavoratori e lavoratrici della sanità spesso con insegnanti e funzione pubblica. «La maggioranza si esprime per il No – spiega Lella Brambilla della segreteria regionale della Cgil – in modo particolare per sanità e scuola perché sanno che le politiche di indirizzo o sono generali, così come i contratti, o loro perdono salario e diritti». Ma non prenderebbero di più con la contrattazione regionale? «Qualcuno prende di più e qualcuno di meno, finora non ha portato granché in tasca dei lavoratori». Allora, se l’interesse di categorie, ordini e classi conta qualcosa al Nord: imprenditori e liberi professionisti (inclusi medici) votano Sì, mentre il No è prevalente tra operai e dipendenti pubblici. Basterà?