Realisti o utopici, storia dei pacifisti

Chi è il pacifista? Se si dovesse tracciare un profilo di questa figura a partire dalle accuse più frequenti e stereotipate dei detrattori, ne uscirebbe l’identikit di un’anima bella, di un sognatore idealista, incapace di adattare le proprie teorie dure e pure alle circostanze mutevoli della storia e alle tristi necessità del mondo. Quasi mai, invece, gli avversari dei movimenti per la pace hanno creduto o ritenuto di doversi misurare con un’analisi della realtà diversa dalla loro – sbagliata quanto si voglia, ma comunque analisi concreta del mondo, della politica, della società. Invece, niente. Il pacifista rimane, per il suo avversario, un sognatore imbelle, degno d’essere rappresentato con tutti i tratti morali negativi del nemico interno: traditore, quinta colonna, fiancheggiatore dei nemici della patria, denigratore della civiltà occidentale, rinnegato, ipocrita, mendace, avversario dei valori cristiani.
Mettiamo però da parte come gli “altri”, i sedicenti fautori della Realpolitik vedono i pacifisti e concentriamoci su come, invece, i pacifisti hanno visto se stessi, come si sono rappresentati e, soprattutto, come si sono distinti all’interno di quella composita galassia che è il pacifismo italiano di cui lo storico contemporaneo Amoreno Martellini ricostruisce una mappa documentata nel saggio Fiori nei cannoni (Donzelli Editore, pp. 230, euro 24,50) che uscirà nella prossima fine settimana. Forse con eccessiva disinvoltura si usano come fossero sinonimi termini diversi come gandiani, antimilitaristi, nonviolenti, pacifisti integrali, umanitaristi, filantropi per arrivare alle sfumature politiche, anarchici, socialisteggianti, antimperialisti e comunisti.

A queste etichette hanno corrisposto nella storia del ’900 anime diverse, culture di diversa matrice, tutte confluite in questa galassia, ma che hanno finito per confrontarsi proprio su quella contraddizione tra utopia ed efficacia reale rinfacciata dagli anti-pacifisti. Se sulla pace come fine e come ideale regolativo della società tutti i pacifisti si sono sempre dichiarati d’accordo, sui mezzi per raggiungere l’obiettivo non sono mancati diffidenze e prese di distanze. Esistono almeno due versioni del pacifismo. C’è quella, per un verso, che emerge dalla cultura cattolica in figure come Edmondo Marcucci e Aldo Capitini, ispirata da un integralismo della nonviolenza che trova i propri riferimenti culturali in Tolstoj e Gandhi. E c’è, per un altro verso, una tradizione radicata nel movimento operaio italiano, prima negli anarchici, poi nei socialisti e più avanti ripresa dai comunisti: è, in questo caso, una versione del pacifismo che si identifica con il ripudio della guerra e del militarismo, null’altro che strumento della politica d’oppressione dei popoli da parte delle classi dominanti. Quando le idee di Tolstoj arrivano in Italia mediate da certe componenti cattoliche devono comunque confrontarsi con la tradizione anarchica e socialista che non esclude per principio l’eventualità della violenza nei processi rivoluzionari. Ai primi del secolo, non a caso, i socialisti oscillano tra l’esaltazione della nonviolenza integrale tolstojana e la sua demolizione. E i toni non sempre sono improntati alla gentilezza. «La sottomissione cieca e l’obbedienza passiva predicate da Tolstoj conducono alla schiavitù – scrive Amilcare Cipriani, figura importante del movimento anarchico – i popoli si sono emancipati dalla barbarie combattendo ed è sempre combattendo che continueranno ad emanciparsi. I peggiori nemici del proletariato sono proprio questi apostoli della vigliaccheria che pretendono di ottenere delle riforme piagnucolando, pregando, strisciando davanti ai loro feroci oppressori». Proprio questa pregiudiziale politica peserà nei rapporti tra i partiti tradizionali e la nonviolenza integrale – ritenuta un’idea troppo astratta per operare nella realtà. E se un intellettuale come Aldo Capitini riesce durante il regime mussoliniano a costruire, insieme a Guido Calogero, una dottrina etico-politica, per quanto indefinita, come il liberalsocialismo, il rapporto tra gandhismo e politica si fa di nuovo inconciliabile durante la Resistenza. E’ forse a questo punto che si registra la massima distanza tra la nonviolenza integrale e le esigenze della lotta armata. Ma è anche da qui che si risale la china, che a poco a poco si ricuciono alcune esperienze del pacifismo gandhiano – ad esempio, quello di Danilo Dolci – e la politica dei partiti nel dopoguerra. Certo, rimangono incomprensioni tra pacifisti integralisti e partito comunista che non si intendono su questioni come l’obiezione di coscienza al servizio militare o l’eventualità della violenza nelle rivoluzioni. Ma attriti ci sono anche fra l’associazionismo dal basso di Capitini e le gerarchie della Chiesa abbarbicate alla dottrina della “guerra giusta” e preoccupate più che altro alla paura del comunismo. Ma in fondo il conflitto tra “valori” e “politica”, tra “idee” e “realtà”, attanaglia la cultura pacifista ancora.