Salvare la compagnia di bandiera? Sì grazie, ma la paghi qualcun altro. Da quando è stata annunciata la privatizzazione di Alitalia, è un fuggi fuggi. Gli imprenditori italiani, chiamati in causa dai membri del governo e dell’opposizione e in una prima fase bramosi di organizzare cordate, imbastire finanziamenti, stringere alleanze, piano piano ci hanno ripensato. E ieri due dei campioni nazionali – o quantomeno accreditati come tali, De Benedetti e Benetton – hanno detto a chiare lettere di non essere assolutamente interessati all’Alitalia, «in queste condizioni». Le condizioni, secondo la propaganda ufficiale, sono quelle che imporrebbero troppi paletti a salvaguardia dell’occupazione e troppi vincoli politici sul mantenimento di questo o quello scalo. Quest’ultima preoccupazione non è peregrina. Basti pensare, per fare un esempio, ai mitici voli Roma-Albenga molto comodi per un noto ex-ministro – Claudio Scajola, per non far nomi – ma di dubbio rendimento economico: ma l’Airone, concorrente privato di Alitalia, li ha ritenuti e li ritiene ancora assai utili. Solo che per ora di paletti e condizioni messe per iscritto non se ne vedono, dunque le levate di scudi degli imprenditori italiani appaiono, nel migliore dei casi, come azioni di tattica preventiva perché il bando di gara sia scritto nel modo giusto. A meno che a spaventarli e a dettare la ritirata non sia stata la mossa fatta dal governo al momento della decisione di mettere sul mercato il 30 per cento della compagnia: ossia la decisione di imporre un’opa, offerta pubblica d’acquisto. Quello delle opa è uno strano destino. La maggior parte degli italiani non sa cosa significa la parola, ma quelli che lo sanno la interpretano in due modi opposti: come una mano santa a garanzia e tutela dei piccoli azionisti e della trasparenza del mercato, se l’opa la deve fare qualcun altro (un Ricucci, uno scalatore estero, una banca olandese); come una sciagura, destinata ad aumentare troppo i costi dell’intelligente operazione imprenditoriale, se l’opa tocca il proprio portafoglio. Una specie di sindrome Nimby ( not in my back yard , non nel mio cortile: si dice di solito a proposito dei cittadini normali che non vogliono rifiuti in casa) applicata all’alta finanza. Sarà un caso, ma da quando è spuntata l’opa – e si è annunciato il bando di gara – l’italianità, prima celebrata, ha perso colpi. Gli stessi esponenti della maggioranza che fino a qualche settimana fa vedevano ottime cordate di imprenditori a ogni angolo, da un po’ hanno smesso di fare annunci. E le banche, che sarebbero poi le vere acquirenti visto che di tutti i capitani coraggiosi italiani non ce n’è nessuno disposto a sborsare un quattrino, hanno preso a muoversi con i piedi di piombo. L’entusiasmo verso la grande privatizzazione è scemato. Com’era forse prevedibile, per un’imprenditoria che ha fatto shopping dallo stato solo nei settori sicuri e protetti (il caso delle Autostrade, della cui privatizzazione in questi giorni si vede il vizio originario, è solo il più evidente) e che ama il rischio solo se lo corrono altri. A meno che tutto questo alzar di scudi non serva solo ad abbassare il prezzo: magari anche passando per un fallimento dell’Alitalia, sul modello Swiss Air.