Rap contro la guerra, cantano soldati Usa

Storie raccontate in prima persona dai diretti interessati: un gruppo di militari reduci da un anno nell’inferno di Camp Eagle, nell’insanguinata periferia di Bagdad. Si fanno chiamare «4th25», quarto quarto, come gli americani chiamano gli ultimi minuti della partita di basket, quelli dove ci si gioca il tutto per tutto. L’album s’intitola Live from Iraq, una raffica di quindici canzoni che vanno via grezze come un cingolato sulle pietre del deserto. Il leader del gruppo è Neal Saunders, sergente del primo reggimento di cavalleria, poco più che ventenne, come i quattro commilitoni che si sono uniti nell’impresa. «La musica l’ho sempre avuta nel sangue e come sono arrivato in Iraq ho capito che se volevo diventare un artista non potevo perdere l’occasione di raccontare questa esperienza – racconta Saunders – I generali vanno sempre a parlare per televisione, ma non dicono mai quello che succede davvero. Nelle nostre canzoni c’è tutto quello che i soldati pensano ogni giorno ma che nessuno ha il coraggio di dire». Non è stato facile.
Tutto è cominciato tra la stanchezza e la rabbia, alla fine d’un turno di servizio, scansando mine e pallottole alla guida di un Humvee. Uno stereo portatile con il volume a palla, e s’improvvisano strofe su come ci si sente quando qualcuno ti spara addosso, o quando ti muore un amico in un attentato. A Bagdad e dintorni non abbondano studi di registrazioni e così il gruppo ha dato fondo a più d’una paga mensile per tastiera, mixer, cavi, cuffie e microfoni. Su Internet hanno fatto il giro di più d’una dozzina di negozi specializzati in America prima di trovarne uno disponibile a spedire il tutto in zona di combattimento. Poi in ogni ora libera si chiudevano in una baracca foderata con materassi e materiale da imballaggio e hanno cominciato a registrare. «C’è un posto a questo mondo che non avete mai visto prima / Un posto che si chiama strada e un posto che si chiama guerra / La maggior parte di voi, gente perbene, culi di pietra, non ha mai visto cosa succede / Parlate di guerra e guardate solo la strada».
Ore e ore di registrazione, resoconti senza censura di quel che succede a far la guardia a un cancello, a scortare convogli di rifornimenti, a dar la caccia ai ribelli. Quando i cinque son tornati a casa, dopo 12 mesi, si son messi a lavorare sul materiale accumulato. Ne è uscito un disco che non ha trovato distributore ma che attraverso il sito internet del gruppo (www.4th25.com) ha venduto un migliaio di copie in poche settimane. Poca roba rispetto agli hit che volano in classifica, ma è solo l’inizio. «Un’intera cultura sta emergendo da questa guerra», spiega il regista Michael Tucker, che ha realizzato un documentario in chiave hip hop su un gruppo di soldati accampati nell’ex residenza di Udai Hussein, il primogenito di Saddam: Gunner Palace, appena uscito in Dvd, ha per protagonista il caporale Javron Drummond, un altro testimone diretto di cos’è la guerra. «In Iraq ti puoi giocare la vita in un secondo; il rap ti aiuta a rimanere concentrato. Quando sei seduto accanto al tuo fucile, quando ti prende la stanchezza e un cecchino può essere in agguato, se provi a raccontare come ti senti sulle note del rap, l’adrenalina fa passar via la paura». Dopo il video, Drummond sta lavorando a un album musicale con altri reduci dall’Iraq: «Abbiamo ancora tante cose da raccontare. Quello che avete sentito sinora non è neanche mezza pagina». A Las Vegas il 29 agosto una decina di gruppi della scena hip-hop suonerà per raccogliere fondi per il movimento per la pace sotto lo slogan: «Via le truppe dal Golfo».
Non è solo la musica ribelle a dire basta. Luke Stricklin, riservista 22enne della guardia nazionale, spedito dall’Arkansas a Bagdad, ha raccontato la sua esperienza con la musica country. Con una chitarra comprata al mercato nero per 25 dollari e il computer portatile ha inciso American by God’s Amazing Grace, versione cinica e amara di una delle più famose canzoni patriottiche. Il motivo spopola sulle radio locali e Stricklin ha ricevuto più di un’offerta per un contratto discografico. Come diceva Tupac, il leggendario rapper di Harlem, «il seme che hai gettato in noi crescerà sino a esploderti in faccia».