Raid sulle città, referendum boicottato

Alcuni autorevoli leader moderati sunniti iracheni hanno chiesto agli Usa di accettare un cessate il fuoco in occasione del mese sacro del Ramadan, appena iniziato, in modo tale da permettere alle popolazioni delle aree sunnite di partecipare al referendum sulla costituzione del prossimo quindici ottobre. Altrimenti, di fronte all’impossibilità di andare a votare sotto le bombe, in particolare nella grande provincia di Anbar, dove è in corso una violenza offensiva delle truppe di occupazione, i sunniti potrebbero decidere, come già in occasione delle elezioni farsa del 30 gennaio scorso, di boicottare sia il referendum, sia le successive elezioni di dicembre. «Ogni volta che stiamo per convincere i gruppi armati a cambiare strada – ha dichiarato ieri in Tv l’avvocato Hussein al Falluji, membro della pattuglia di 15 esponenti sunniti «accettati» ma del tutto ignorati nella commissione incaricata di redigere la costituzione – gli americani e il governo iracheno sferrano attacchi contro le nostre regioni e ci riportano al punto di partenza». A fianco di Hussein al Falluji è sceso in campo ieri anche Saleh al Mutlaq, leader del Consiglio sunnita per il dialogo nazionale, che ha dato tre giorni agli americani per porre fine alle operazioni militari in tutto l’Ovest dell’Iraq e ha invitato gli Usa ad aprire trattative dirette con la resistenza. La richiesta di un «cessate il fuoco» è venuta anche dal Partito islamico iracheno, il partito sunnita moderato vicino ai Fratelli musulmani, da settimane attivissimo per convincere la popolazione a votare contro la «costituzione che divide l’Iraq». In realtà anche in questa occasione, come già per le elezioni farsa del 30 gennaio scorso, l’Amministrazione Bush non sembra voglia raggiungere alcun compromesso o «cessate il fuoco». Il generale Rick Lynch, portavoce militare Usa, ha escluso ieri qualsiasi possibilità di arresto delle tre offensive in corso nella provincia di Anbar da Ramadi fino al confine con la Siria lungo la valle dell’Eufrate. Un’offensiva che ha già portato alla distruzione di ben otto dei 12 ponti sull’Eufrate, a migliaia e migliaia di profughi, danni inenarrabili e un numero imprecisato di vittime. Parallelamente agli attacchi contro le zone sunnite, nei quali hanno perso la vita nelle ultime 24 ore altri sei marines, Stati uniti e Gran Bretagna hanno anche lanciato una nuova offensiva contro gli sciiti contrari alla costituzione ed in particolare contro il movimento di Moqtada al Sadr. Per portare avanti questa offensiva generale l’Amministrazione Bush ha di nuovo elevato il numero dei soldati americani in Iraq – con buona pace della «exit strategy» – da 138.000 a 152.000 uomini e con l’allargarsi della guerra stanno crescendo in misura esponenziale anche le spese: l’Amministrazione Bush ormai spende più di sei miliardi di dollari al mese per occupare l’Iraq e l’intera operazione, da qui al 2010, potrebbe arrivare a costare la cifra da capogiro (che avrebbe potuto trasformare in un paradiso l’intera Mesopotamia), di 570 miliardi di dollari. Dall’undici settembre ad oggi l’Amministrazione Usa -secondo il «Congressional Budget Office» – avrebbe speso per le operazioni militari 361 miliardi di dollari. Spese folli ma solo apparentemente. Oltre al periodo di vacche grasse per il complesso militare industriale, la politica muscolare di Bush ha anche fatto si che le multinazionali americane nel corso del 2005 abbiano riportato in patria per reinvestirli, quasi esentasse, circa 350 miliardi di dollari, la metà del deficit commerciale.