È una tregua sempre più fragile quella siglata l’altro ieri tra il Fatah del presidente Abu Mazen e gli islamisti di Hamas. Ieri sera a Gaza un militante del partito fondato da Arafat è stato ucciso e si sono registrati sporadici scontri a fuoco. Ma, soprattutto, i due schieramenti hanno iniziato a catturare membri del fronte opposto. Fatah ha accusato Hamas del rapimento di Sufian Abu Zaida, ex ministro di Abu Mazen per i prigionieri. Nel nord della Striscia uomini armati e incappucciati hanno fatto irruzione nell’ufficio del fratello di un parlamentare si Fatah e l’hanno catturato. Alaa Yaghi, membro dell’Autorità nazionale palestinese, ha accusato Hamas dell’azione, giudicandola «un messaggio per me e il movimento» (Abu Zaida è stato liberato in nottata come «gesto di buona volontà», ha detto l’ala militare di Hamas). A Gaza si parla con insistenza di diversi militanti islamisti «catturati» nei giorni scorsi dalle forze di sicurezza fedeli al presidente e l’ostaggio potrebbe essere utilizzato come merce di scambio. In tutto sarebbero undici i prigionieri di Fatah fatti da Hamas e quattro gli islamisti catturati da Fatah. A Jabaliya, il campo profughi in cui 30 anni fa scoppiò l’intifada, l’episodio più grave, con l’uccisione di un militante di Fatah. La vittima è Ahmad Zihyadah e aveva 22 anni. Fatah ha attribuito ad Hamas la responsabilità dell’attacco in cui il giovane è rimasto ucciso. Gli islmisti ribattono che la sparatoria è stata iniziata dagli uomini di Abu Mazen.
In questo clima infuocato è arrivata l’iniziativa del premier israeliano, Ehud Olmert, che ha annunciato di voler istituire al più presto una commissione israelo-palestinese per arrivare a uno scambio di prigionieri. Se l’annuncio sembra fatto per sostenere il presidente palestinese nello scontro che lo contrappone al governo, è anche vero che Gilad Shalit, il caporale delle tsahal catturato da un commando palestinese nel giugno scorso, sembra essere nelle mani di gruppi più vicini ad Hamas che a Fatah e che quindi un accordo per la sua liberazione in cambio di centinaia di prigionieri palestinesi è molto difficile in un momento di contrapposizione tra le forze palestinesi.
E tra Ramallah e Gerusalemme, dove ha incontrato sia Abu Mazen che Omert, ieri si è mosso anche Tony Blair, il premier britannico alla disperata ricerca di un qualche piccolo passo in avanti sullo scacchiere mediorientale da poter dare in pasto a un’opinione pubblica sempre più ostile nei confronti delle sue missioni militari in Iraq e Afghanistan. Blair ha promesso appoggio incondizionato al moderato Abu Mazen. Ed è nel corso della conferenza stampa congiunta al termine del loro incontro che Abu Mazen ha voluto confermare davanti alle telecamere l’annuncio fatto sabato scorso di voler procedere con lo scioglimento del parlamento e le elezioni anticipate. Una strada che, se intrapresa, porterà il movimento che conquistò la maggioranza parlamentare con il voto del 25 gennaio scorso a boicottare le urne. Lo ha ribadito ieri il leader di Hamas in esilio a Damasco Khaled Meshaal. In un’intervista alla Bbc Meshaal ha definito «illegale» qualsiasi decisione di Abu Mazen che porti al voto anticipato. «Ciò di cui c’è necessità per risolvere la crisi inter-palestinese è un accordo nazionale, non azioni individuali specialmente se prese in risposta a pressioni straniere». E Blair sembra aver risposto direttamente a Meshaal quando ha minacciato Hamas – che detiene il potere in seguito a elezioni libere e democratiche – che «non gli verrà permesso di esercitare alcun potere di veto sui negoziati con Israele né di fermare i progressi verso la pace».