L’ultima volta che ho incontrato Raffaelino è stato nel 2008. Era autunno, questo lo ricordo benissimo. A pensarci bene era il 7 dicembre. Quella volta, a De Grada, il sindaco di Milano, Letizia Moratti, conferì la Grande Medaglia d’Oro con la seguente motivazione: «Ha legato il suo nome a Milano tanto nel campo della ricerca artistica quanto in quello della passione civile. Attivo come saggista dagli anni Trenta, ha fondato nella nostra città la rivista “Corrente”. Arrestato nel 1938 per la sua attività antifascista, fu la prima voce di Radio Milano dopo la Liberazione. Consigliere comunale, deputato e consigliere di illustri Enti culturali milanesi, dal Teatro alla Scala al Museo “Poldi Pezzoli”, ha saputo coniugare la passione per l’arte con quella per la città. Dal 1965 è stato docente di Storia dell’arte all’Accademia di Brera, con un impegno ventennale di Maestro e di ricercatore. Ancora oggi, nella collaborazione con il “Corriere della Sera” e con i maggiori editori d’arte, contribuisce alla comprensione e alla lettura della tradizione artistica italiana dell’età moderna» (cfr. Comune di Milano, “Civiche Benemerenze. Sant’Ambrogio 2008”).
Alla lettura della motivazione ci fu un grande applauso del numeroso pubblico presente in sala (Teatro dal Verme) perché, con tale attestazione, oltre ai riconoscimenti culturali del Comune di Milano, lo stesso pubblico riconosceva in De Grada anche uno dei rappresentanti autorevoli di quella memoria storica antifascista e partigiana combattente che aveva liberato il paese dal nazifascismo. Quel giorno, anch’io fui molto felice nel vedere sorridere di gioia l’amico e il compagno di sempre, anche se poi, ad entrambi, sull’incrocio dei nostri sguardi, la tristezza piombò addosso come una ghigliottina. Raffaele, magrissimo come non mai, era ridotto su una sedia a rotelle, trasportato dalla moglie Maria Luisa, che non lo abbandonò un solo istante. Quella tristezza in quello sguardo intenso tra di noi stava per dire che adesso, per Raffaele, era proprio iniziato un nuovo percorso di vita, l’ultimo, che inevitabilmente l’avrebbe portato alla fine, giunta inesorabile il 1° ottobre. Appena un anno prima, Raffaele era stato colpito da un ictus cerebrale che lo aveva spiantato e ridotto nello stato in cui lo vidi l’ultima volta. Il nostro sguardo si smorzò in delle carezze affettuose, lui che accarezzava la mia testa con quella sua mano ormai quasi del tutto anchilosata, ed io che lo salutavo con quel tremendo nodo alla gola, perché sapevo che non l’avrei rivisto più. Erano state tante, veramente tante, le stagioni passate insieme in molte città italiane, e poi anche a Lecce, a Gallipoli, le mie città, nelle quali Raffaele veniva al seguito di suoi parenti. Sono state settimane indimenticabili, al mare, tra gli ulivi del Salento, tra monumenti megalitici antichi e moderni, nei musei e nelle gallerie, dove amava recarsi, per finire poi il lungo girovagare in una cena tipica delle tante osterie del posto. Ecco così, a Milano, nel dicembre 2008, è stato il mio ultimo incontro con Raffaele, che il giornalista Armando Besio, nel suo articolo “Addio a Raffaele De Grada, critico, storico e partigiano”, su «la Repubblica» (2 ottobre 2010), ha così ricordato: «Se n’è andato ieri, a 94 anni, Raffaelino De Grada, “critico d’arte militante” (ci teneva a sottolineare la sua distanza dai “critici critici”), intellettuale antifascista, politico, insegnante, scrittore, animatore culturale della Milano del dopoguerra. Amato per la sua schietta umanità, oltre che stimato per la sua vivace intelligenza» (p. 52). Personalmente, avevo conosciuto Raffaele all’indomani della strage di stato a Milano. Era il 1969 e andava montando il movimento studentesco milanese. Quella tremenda bomba fascista-statalista alla Banca dell’Agricoltura, in piazza Fontana, aveva scosso molto coscienze. Io, studente di sociologia a Trento, assieme ad altri compagni universitari, quando le forze progressiste (Pci, Psi, Psiup, Anpi, Cgil, altre ancora) di quel momento decisero di fare una grande manifestazione di risposta democratica a quel crimine, decidemmo di partire e andare a Milano per solidarizzare col movimento studentesco milanese partecipando al grandioso comizio in piazza Duomo. Fu dopo quella manifestazione, e dopo le altre che si tennero contro la barbara uccisione dell’anarchico Giuseppe Pinelli, che nelle diverse riunioni organizzative per dare una struttura al movimento studentesco milanese e al movimento di contestazione generale nell’intera Italia, che incontrai per la prima volta Raffaele De Grada, Giuseppe Alberganti e Angelo Cassinera, tre partigiani, tre comunisti facenti parte del gruppo dirigente del Pci milanese e nazionale. Dopo quel primo incontro, non sapevo ancora che sarebbero divenuti per me un punto di riferimento politico-culturale che mi avrebbe accompagnato per il resto della vita. Si tratta di tre grandi personaggi della nuova Italia, che hanno dato molto alla politica e al popolo italiano e di cui, oggi, in questo quasi ventennio di barbarie sub-culturale berlusconista, si conosce poco. […] Durante la Resistenza, che si fece tutta, De Grada ebbe la ventura di lottare a fianco di Eugenio Curiel (1915-1945), assassinato a Milano dalle brigate nere il 24 febbraio 1945. […] Raffaele De Grada, studente universitario, fu allievo di Antonio Banfi, il grande teorico marxista e, allo stesso tempo fu anche studioso della filosofia della scienza di Ludovico Geymonat, col quale condivise una lunga parentesi di vita politica ai tempi del Movimento Lavoratori per il Socialismo (Mls), e ai tempi di Democrazia Proletaria (Dp). Una bella pagina di vita militante assieme al grande filosofo, De Grada l’ha svolta in quanto presidente del Centro Gramsci di Educazione e Cultura. Fu lui che volle che il Centro dedicasse un convegno sulla figura e l’opera del compagno Ludovico. De Grada lo scrive in “Panta rei”: «Negli anni ottanta era stato per me un compagno e amico prezioso Ludovico Geymonat, filosofo della scienza e comunista fermo e mai schematico, come altri del periodo. L’abbiamo ricordato più volte e in particolare in un convegno a Bologna il 26 gennaio 2002. Mi colpiva la sua capacità di analisi senza il superficiale ottimismo di tanti comunisti dell’epoca, ivi compresi molti del Movimento Lavoratori per il Socialismo (ex Movimento Studentesco) della cui direzione avevamo fatto parte finché era stata assicurata da Turi Toscano, morto tragicamente in un incidente di macchina in Jugoslavia, insieme al mio caro compagno Giuseppe Alberganti, con cui ho fatto il viaggio in Cina […]. Con Geymonat ho avuto una bella amicizia, sempre nel segno di una fede comune. Geymonat era stato dalla parte di coloro che hanno combattuto lo sfruttamento dei lavoratori. Quando il Partito Comunista ripiegò verso l’Ulivo, Geymonat non seguì quella opportunità. La sua posizione di filosofo lo teneva lontano dal dibattito meramente istituzionale» (cfr. “Il pensiero unitario di Ludovico Geymonat”, Edizioni Nuova Cultura, Teramo 2004, p. 152). Raffaele era piuttosto restio a parlare di sé, della sua vita di partigiano e di politico comunista. Diceva sempre che altri avrebbero dovuto dire, scrivere, commentare quel che c’era da commentare di lui. Io invece, in quanto membro del direttivo del Centro Gramsci, dicevo sempre che era suo dovere farci sapere le tappe politiche fondamentali della sua vita, perché, quando sarebbe toccato ad altri farlo, inevitabilmente, la soggettività del biografo lo avrebbe portato ad alterare aspetti e lati magari ininfluenti. Finalmente, dopo tanto insistere, Raffaele scrisse “La grande stagione” (Anthelios edizioni, Milano maggio 2001, pp. 267), che è il racconto di quattro generazioni di una famiglia italiana, che inizia col bisnonno Raffaele, un rivoluzionario del gruppo Cattaneo, incarcerato dagli austriaci dopo il 1849, prosegue col nonno Antonio, emigrato in Svizzera dopo i fatti milanesi del 1898, e prosegue col padre Raffaele, ritornato da Zurigo per la guerra del 1915, concludendosi infine con l’esperienza di Raffaelino [lo stesso nome del padre, voluto dalla madre Maddalena (Magda) Ceccarelli, fine e dotta poetessa antifascista che, per distinguerlo dal marito, vi aggiunse il diminutivo], critico d’arte e antifascista militante e partigiano combattente. Un secolo di storia, quindi, all’interno del quale De Grada affronta i lunghi anni della dittatura fascista combattendola sin da giovanissimo, impegnato nell’attività di alcune prestigiose riviste, fra cui «Solaria». Ne “La Grande Stagione”, De Grada evita la retorica narcisistica della tipica autobiografia spesso profanando le zone dell’intimità familiare. Interessante quanto egli scrive della vicenda di sua nonna Teresa, che gli «raccontava che quando [lo] portava infante in carrozzina nei giardinetti zurighesi di Selnau, presso il fiume Sihl [… dove] negli stessi giardinetti spuntavano ogni tanto due rivoluzionari russi che abitavano nei pressi. Erano Lenin e la Krupskaja […] e Teresa giurava che il Lenin (così lo chiamava) si era avvicinato alla culla e [lo] aveva accarezzato» (p. 12). Raffaele De Grada ha sempre avuto dei riferimenti ideologici molto chiari: la Rivoluzione Francese del 1789, “Il Manifesto dei comunisti” del 1848, di Marx ed Engels, la Comune di Parigi del 1871, il Risorgimento unitario italiano (1799-1860), la Rivoluzione Socialista dell’Ottobre 1917 in Russia, la Terza Internazionale Comunista e la lotta antifascista in Italia. Nel libro “La Grande Stagione”, descrive l’episodio della cattura da parte dei fascisti: «Quando fui arrestato […] l’Ovra cercò dapprima di trascinarmi nella catena di arresti di ebrei che era partita da Trieste […] poi dovettero fermarsi davanti ai vecchi sospetti del mio antifascismo. […] Mi tennero ancora per parecchi mesi a S. Vittore e la cosa finì con il confino per chi era stato trovato con la stampa, per me la ripetuta ammonizione» (p. 124). Uscito dal carcere De Grada continuò nel lavoro clandestino fino a che non venne nuovamente catturato (marzo 1943) e «isolato con grande sorveglianza», questa volta, però, dovette subire non poche sofferenze, angherie, interrogatori, persino la tortura psichica. Scarcerato nuovamente continuò a lavorare nella clandestinità e nella lotta antinazifascista. Assieme ad Eugenio Curiel, organizzò il Fronte della Gioventù. Per questa attività, entrambi furono condannati a morte dalla famigerata X Mas. Così viene descritto quell’episodio: «Un macabro foglio in cui con l’immagine del teschio e le due tibie incrociate si diceva che i signori della guerra avevano fissato a quello “sporco comunista” che ero io, il giorno e l’ora in cui mi avrebbero giustiziato. Seppi che lo stesso foglio era stato recapitato in quei giorni anche a Eugenio Curiel presso suoi parenti» (p. 193). L’impegno profuso dal compagno Raffaele De Grada per scrivere “La Grande Stagione” fu grande e grandi furono le fatiche da lui sostenute. Raffaele aveva già 84 anni, ma noi più giovani di lui del Centro Gramsci di Educazione e Cultura, ricominciammo a stimolarlo nuovamente a che lui ci ragguagliasse sul resto della sua attività, quella del dopo 1945 e della ricostruzione della nuova Italia. All’inizio ci sembrò indifferente, diceva di sentirsi «stanco» ma poi – e questo io lo sapevo già – cominciò a lavorare alla sua seconda per noi importantissima testimonianza. Erano passati appena cinque anni dall’ultima sua fatica (“La Grande Stagione”, 2001), che Raffaele, in occasione del suo 90° compleanno (febbraio 2007), ci fece (lui a noi!) un altro grande e straordinario dono, il suo nuovo libro, dall’emblematico titolo “Panta Rei. Politica, società e cultura. Lo scenario italiano dal 1945 a oggi” (Silvana Editoriale, Milano, ottobre 2006, pp. 160). Si tratta della continuazione del libro precedente, il cui titolo, “Panta Rei”, è la famosa massima di Eraclito, che significa “Tutto scorre”, cioè che la vita comunque va avanti. Raffaele De Grada affronta qui, chiarendole, molte delle vicende che vanno dal secondo dopoguerra all’inizio del XXI secolo. Nel capitolo “Milano e l’Italia dal 1945 al 1948”, scrive della ricostruzione del Partito comunista italiano e allo stesso tempo della ricostruzione della cultura italiana, prendendo posizione sulla polemica tra Elio Vittorini e Palmiro Togliatti a proposito della rivista «Il Politecnico». Rievoca l’esperienza della rivista «Il ‘45» e l’inizio dell’esperienza del movimento realista, coinvolgendo artisti e intellettuali con i quali egli ha intessuto un rapporto di vera amicizia ed anche di politica gramsciana. Subito dopo la fine della guerra, divenne primo corrispondente (con lo pseudonimo di Criticus) della Rai da Milano, ricordando gli scontri col reazionario ministro democristiano Scelba a proposito dell’interpretazione da dare ad alcune lotte dei lavoratori, scontri che lo portarono all’abbandono dell’Ente su pressione delle Dc. Un ruolo importante egli lo svolse anche come segretario italiano del Movimento Mondiale dei Partigiani della Pace. […] dove ebbe modo di conoscere e stringere amicizia con alcuni tra i più grandi intellettuali del mondo, fra cui i filosofi Merleau-Ponty, Jean Paul Sartre e Simone de Beauvoir, gli scienziati Jean Frédéric Joliot e sua suocera Marie Curie, i pittori Pablo Picasso, Renato Guttuso e Ernesto Treccani, i poeti Pablo Neruda, Rafael Alberti e Salvatore Quasimodo, gli scrittori Primo Levi, Natalia Ginzburg e Ilya Ehrenburg, molti altri ancora, tra cui interessante il suo rapporto con Carlo Levi. È noto, è stato lui stesso a dircelo, che alcuni dei documenti emanati dal Consiglio Mondiale dei Partigiani della Pace, furono materialmente scritti grazie anche al suo contributo. Molto materiale si trova ancora inedito fra le carte del primo congresso del Movimento per la pace (Parigi 1949) e il secondo, quello che organizzò lui personalmente nel novembre 1950 a Varsavia, allora una delle capitali del campo socialista. Dopo quell’anno, De Grada continuò ad interessarsi al Movimento per la pace attraverso altre iniziative che si intrecciarono con la sua stretta militanza comunista e col superamento delle crisi politiche che andavano sempre più crescendo nel campo socialista dal 1956 in avanti. Nonostante ciò, Raffaele non smarrì l’orientamento politico, cosa che influenzò molti altri intellettuali, per cui continuò il suo attaccamento ai grandi ideali del comunismo e all’Unione Sovietica. De Grada fu consigliere comunale del Pci di Milano dal 1948 al 1959, deputato della Camera dal 1958 al 1963, chiedendosi sempre, fino alla fine, perché il Pci non lo ricandidò più. Lui non lo chiese mai formalmente e nessuno, della direzione del partito, si sentì in dovere di spiegarglielo. […] Quando arrivarono gli anni ’70, Raffaele era ormai dentro all’acceso dibattito per un’idea nuova di fare politica: assieme a Giuseppe Alberganti, Angelo Cassinera, Turi Toscano e altri leader studenteschi fondò il Movimento Lavoratori per il Socialismo con un organo di stampa, «Fronte Popolare», di cui fu direttore responsabile e l’animatore più presente all’interno della redazione. Il resto della sua vita politica, De Grada l’ha vissuta assieme a noi del Centro Gramsci di Educazione e Cultura, alla cui costituzione partecipò assieme ad altri prestigiosi compagni, come Fosco Dinucci, Pietro Scavo e Angelo Cassinera. Fu sua la proposta affinché il Centro si dotasse di una rivista, appunto il “Gramsci”, sulla quale è possibile leggere molti suoi interventi a partire dalla sua costituzione nel 1991. Impossibile dimenticare una sua relazione (al momento inedita) sulla funzione politica e culturale del Centro, tenuta a Venezia il 28 febbraio 2005, nella casa del compagno Mario Geymonat: «Diventa impellente domandare a noi stessi quale può essere oggi la funzione del Centro Gramsci che finora, con la sua rivista comparsa sporadicamente con grande sforzo dei compagni che l’hanno composta, stampata e diffusa e con piccoli convegni di elaborazione politica e culturale ha gestito, come ha potuto, un’area comunista ristretta, senza pretendere di essere una forza politica, ma con l’ambizione di diventare sempre meglio un contributo culturale di base». A proposito dell’89° compleanno di Raffaele, il 28 febbraio 2005, scrivevo: «Sono 89 anni di passione politica, di passione per l’arte, di passione per la vita, che egli ha vissuto sempre con impegno, con dedizione, con grande partecipazione. Ciò che ha caratterizzato sempre il suo impegno è stata la coerenza in ogni campo in cui ha posto il suo interesse e, soprattutto, la schiettezza dell’essere stato sempre, di esserlo ancora oggi, franco e sincero con tutti, senza mai venire meno ai sentimenti fondanti l’umanità. Per questa sua caratteristica tendente sempre verso la correttezza, l’onestà, la sincerità, Raffaelino De Grada non è stato né amato né compreso dai molti poteri arroganti e presuntuosi, che sempre invece egli ha combattuto a viso aperto. E non ha taciuto neanche davanti ai differenti e spesso contrastanti punti di vista all’interno del Partito comunista, al tempo di Luigi Longo e di Giancarlo Pajetta […]. Certo non è stato facile comprendere immediatamente l’insegnamento che proveniva dal suo magistero, soprattutto per le questioni in campo politico, dove egli sembrava possedere una capacità oserei dire profetica. Non di rado, infatti, noi del Centro Gramsci ascoltavamo le sue analisi sulla situazione politica italiana e su quella internazionale che sembravano essere distanti mille miglia dall’attualità contingente, salvo poi, appena qualche mese dopo, constatare immancabilmente l’avverarsi di quanto la sua capacità analitica aveva saputo prevedere. […] A metà anni ‘80, dopo la fine delle esperienze politiche legate al Movimento lavoratori per il socialismo e a Democrazia proletaria, il compagno De Grada ha continuato ad essere sempre presente nel dibattito e nell’impegno politico, letterario ed artistico attraverso l’adesione a numerosissime manifestazioni antifasciste, per la pace, la democrazia e il socialismo. Agli inizi degli anni ‘90, noi del Centro Gramsci di Educazione e Cultura gli abbiamo chiesto di darci una mano nel difficile compito di riorganizzazione delle file del Movimento dei lavoratori italiano e soprattutto gli abbiamo chiesto aiuto ad orientarci nell’altro difficile compito di mettere ordine al grande disordine voluto dall’ imperialismo e dal revisionismo nel campo della varia umanità. Egli generosamente ha voluto mettere accanto alle nostre modeste forze la sua intelligenza e la sua grandissima esperienza umana». Tutte queste citazioni, questi ricordi possono apparire eccessivi, perché chi qui scrive potrebbe essere influenzato dalla lunga comunanza di ideali intessuta con De Grada; non è così, perché anche chi non è stato così vicino a Raffaele De Grada, come lo siamo stati noi del Centro Gramsci per 40 anni, conserva di lui un affettuoso e obiettivo ricordo. È il caso dello scrittore e noto critico d’arte Sebastiano Grasso che, sul «Corriere della Sera» (giornale sul quale De Grada scrisse le sue note critiche per oltre 50 anni), a proposito dei suoi 90 anni, ha scritto: «Che cosa rende uomini come Raffaele De Grada diversi da tutti gli altri? Probabilmente un’esistenza vissuta intensamente, partecipata, inventata di giorno in giorno, ma, soprattutto, una grande, grandissima umanità. […] È proprio questa umanità che non ha mai fatto avvizzire, in lui, quella parte del “fanciullino” di pascoliana memoria» (cfr. «Corriere della Sera», sabato 18 marzo 2006, p. 40).