Rafah sigillata, a Gaza uomini come bestie

I legami tra Gaza e l’Egitto sono sempre stati forti, per ragioni storiche e politiche, e persino a un orecchio poco attento non sfugge la cadenza egiziana che contraddistingue l’arabo dei palestinesi della Striscia. Così quando ieri mattina, nella stazione di taxi del valico di Rafah si è sparsa la voce che 5 megawatt di corrente elettrica saranno forniti gratuitamente dagli egiziani ai palestinesi di Gaza – privati dai bombardamenti israeliani dell’unica centrale elettrica – e altri 12 saranno disponibili grazie a cavi sotterranei in fase di installazione, l’entusiasmo è salito alle stelle tra la gente. «Grazie a Dio, i fratelli egiziani sono con noi», ha gridato un anziano palestinese alzando le braccia al cielo. Una buona notizia finalmente, hanno commentato altri, di buon auspicio per la riapertura del valico di Rafah chiuso da Israele dopo il sequestro del soldato Ghilad Shalit, dal 25 giugno nelle mani dei suoi rapitori palestinesi. Dall’altra parte ci sono dai 3.000 ai 7.000 uomini, donne e bambini che da oltre due settimane attendono di passare, di poter tornare a casa. «Quelli che possono permetterselo sono ad Al-Arish, altri sono tornati al Cairo, ma i più poveri sono al terminal egiziano, ammassati come bestie», ha spiegato Marwan al-Astal di Khan Yunis giunto al valico sperando di riabbracciare il fratello minore di ritorno dall’Egitto.
Tutta l’area circostante è ad alto rischio. Ieri quelli che speravano nella riapertura del transito si sono tenuti a distanza di sicurezza dall’ingresso del terminal. I tank israeliani si muovono proprio in quella zona, nell’aeroporto di Dahanyeh, e aprono il fuoco senza pensarci due volte. Attesa e rischio non sono stati premiati. Nemmeno le pressioni internazionali, le proteste e persino la notizia dei due palestinesi uccisi dalla fatica e dalle terribili condizioni di vita al valico, hanno convinto Israele a mettere fine alla chiusura ad oltranza. «Abbiamo inviato (ieri mattina, ndr) un gruppo di osservatori al valico per tenerlo aperto 12 ore e garantire il ritorno di persone bisognose di cure immediate. Invece le trattative con i comandi militari israeliani non hanno dato risultati e il valico è sempre chiuso», ci ha detto Maria Tilliria, portavoce spagnola del contingente di supervisori dell’Unione europea giunti alla fine dello scorso anno a Rafah, agli ordini del generale dei carabinieri Pietro Pistolese. Gli osservatori dell’Ue per raggiungere Rafah dal loro quartier generale ad Ashqelon, devono passare per il transito israeliano di Kerem Shalom – sul confine tra Gaza, lo Stato ebraico e l’Egitto – e dalla fine di giugno non riescono più a farlo. L’accordo firmato dopo il ritiro di soldati e coloni israeliani dalla Striscia di Gaza, la scorsa estate, non consente alle guardie di frontiera palestinesi di tenere aperto il valico di Rafah in assenza degli osservatori europei. Ciò che accade in questi giorni conferma che di fatto è ancora Israele a controllare la frontiera tra Gaza e l’Egitto e non l’Anp come giornali, radio, televisioni e uomini politici di mezzo mondo si erano affannati ad affermare. «Rafah non è molto diversa da Karni e Sufa, Gaza è un’enorme prigione e a possederne le chiavi è ancora Israele», ha commentato con amarezza Karam Masri, che sul versante egiziano del confine ha una sorella e un nipote fermi da quasi dieci giorni.
I più deboli e poveri intanto rischiano di subire la stessa sorte di Hamza Taleb, 18 mesi, stroncato dalla disidratazione al terminal di Rafah, o di una ragazza adolescente operata all’addome nei giorni scorsi al Cairo e uccisa dal caldo opprimente. Sono quattro i palestinesi uccisi negli ultimi giorni per effetto della chiusura. La Croce rossa internazionale si era offerta di riportare a Gaza con i suoi automezzi le centinaia di persone più a rischio, ma Israele continua a negare la riapertura di Rafah e propone che un certo numero di palestinesi vengano fatti transitare attraverso Karem Shalom, da dove non si accede direttamente a Gaza.
Si rischia «una catastrofe umanitaria», ha denunciato ieri il premier palestinese Ismail Haniyeh (Hamas) sottolineando la scarsità di beni primari conseguente l’offensiva israeliana. Il premier palestinese ha ringraziato l’Ue per i 300.000 litri di carburante messi a disposizione dei generatori autonomi di elettricità delle strutture ospedaliere di Gaza, rimaste senza corrente. Come sempre Bruxelles è pronta a stanziare fondi, ma rimane in silenzio di fronte alle cause politiche e militari della crisi umanitaria. La cooperazione italiana ha stanziato 1.500.000 euro in aiuti umanitari. Il viceministro degli esteri Sentinelli ha annunciato un primo intervento d’emergenza (200.000 euro) in favore dei principali ospedali di Gaza. E un appello ad aiutare i palestinesi è stato lanciato anche da Abu Mazen, ieri in visita ad Amman. «La cosa peggiore è colpire i civili, fra cui intere famiglie. Ogni giorno vengono uccisi uomini, donne e bambini», ha denunciato il presidente dell’Anp. Ieri un attivista è stato ucciso e quattro sono rimasti feriti in un raid dell’aviazione israeliana contro un ponte a Beit Hanun, nel nord di Gaza. Ed è morto in un ospedale di Tel Aviv Khaled Wahdeh, il bimbo di 15 mesi ferito gravemente da un missile israeliano caduto su una casa a Khan Yunis lo scorso 22 giugno.