Proviamo a enumerare, in modo necessariamente schematico, i fattori che hanno caratterizzato la lunga fase regressiva (durata almeno tutto lo scorso decennio) culminata nella débacle del 13 maggio. Sul piano politico, la truffa maggioritaria, la guerra (non solo nei Balcani: bene non dimenticarsi l’astensione del Pci sulla Guerra del Golfo), l’ideologia “modernizzatrice”, che non distingue tra la valorizzazione sociale delle forze produttive e il loro uso capitalistico; sul piano sociale, l’abolizione di fatto del conflitto di classe (si è passati dai 36 milioni di ore di sciopero del 1990 ai 6 del 1999), l’accettazione della precarizzazione dei rapporti di lavoro, la redistribuzione della ricchezza a vantaggio di profitti e rendite (nel 1999 i profitti delle grandi imprese sono cresciuti in un solo anno del 78% a fronte di una crescita di salari, stipendi e pensioni inferiore al tasso di inflazione); sul piano ideologico, il dilagare dei miti della fine del lavoro salariato e della classe operaia, della contraddizione capitale-lavoro e della “fabbrica”; nonché la grande narrazione del “postfordismo”, mentre assistiamo, semmai, al trionfo del fordismo, inteso come progetto di assoluta integrazione tra società e impresa capitalistica. Veniamo fuori (forse) da un’orgia di teorie a dir poco fantasiose, propagandate anche da gran parte della sinistra “critica”.
In questo contesto lo sciopero Fiom e i movimenti anti-G8 costituiscono elementi controtendenziali, da valorizzare. E dei quali, proprio a tal fine, si impone una lettura analitica e non ideologica.
Per cominciare dallo sciopero del 6 luglio, quella che qualche dirigente della Cisl ha voluto qualificare come una “scellerata prova di forza” (Raffaele Bonanni sul Corsera del 7 luglio) è stata in realtà un grande successo, tanto più importante in quanto smentisce riduzionismi alla moda e impone di riprendere sul serio la questione della lotta di classe. Non si è trattato soltanto di uno sciopero per il salario, ma di una lotta politica per l’autonomia del lavoro e per il contratto nazionale; di un forte pronunciamento non solo contro l’offensiva sociale e politica del padronato, ma anche contro la deriva compatibilista e moderata della sinistra politica e sindacale. Di fronte alla straordinaria mobilitazione dei metalmeccanici bisogna dire con chiarezza se si appoggia questa lotta (che è appena agli inizi: il vero banco di prova sarà l’autunno) e se la si considera decisiva per la ricostruzione del movimento di classe e per il rilancio del conflitto nel paese. Una presa di posizione forte e corale in tal senso potrebbe avere un importante effetto a catena sugli orientamenti politici della sinistra, sulla sua capacità di recuperare unità d’azione, e sulla ripresa di una funzione effettivamente conflittuale da parte della Cgil (e forse, in prospettiva, del sindacato confederale).
Questi giudizi gettano luce, a nostro parere, anche sui movimenti anti-G8. Diciamo con chiarezza che condividiamo l’attenzione e l’interesse per questi movimenti; e che consideriamo sbagliato l’atteggiamento di chi tende a ridurli a manifestazioni folcloristiche. Ma con altrettanta chiarezza diciamo anche che non tutto ci convince né della direzione di questi movimenti da parte del Genoa Social Forum, né della piattaforma ideologica che sottende tale direzione. Sembra profilarsi un gioco delle parti tra movimenti e governo funzionale alla spettacolarizzazione della protesta. Siamo d’accordo, ovviamente, sulla necessità di evitare in ogni modo scoppi di violenza che avrebbero il solo effetto di legittimare la criminalizzazione di questa protesta e di ogni altra forma di dissenso. Ma ci sembra altresì indispensabile evitare che l’attenzione concentrata su Genova (e in genere sulle critiche della “globalizzazione”) servano in sostanza a sancire formalmente l’irrilevanza e, al limite, l’illegittimità di qualunque altro ambito di conflitto, a cominciare proprio dal conflitto operaio e sindacale in genere.
Sul piano della piattaforma ideologica, le nostre perplessità divengono, in alcuni casi, pieno dissenso. Da parte di alcuni portavoce della protesta si tende a dare una lettura dichiaratamente a-classista del G8 che fa pendant con una interpretazione generica dei processi di mondializzazione. Riteniamo indispensabile a questo riguardo ribadire che il mondo ancor oggi sottoposto a una crescente pressione imperialistica da parte dei paesi (Stati nazionali) capitalistici più potenti a cominciare dagli Stati uniti, dei quali i principali organismi sovranazionali (Bm, Fmi, Wto, Ocse, Nato, Tribunale dell’Aja) sono emanazione. Può sembrare uno slogan semplicistico, ma ci sembra utile sottolineare che piuttosto che parlare indistintamente di G8 sarebbe corretto parlare di G1+7. E fare osservare a quanti storcono il naso di fronte a concetti e parole considerati arcaici per il semplice fatto di appartenere a una venerabile tradizione teorica, che di “imperialismo” a proposito degli attuali processi di mondializzazione parla anche, in un articolo apparso sul Sole 24 Ore dell’8 luglio, un economista non sospettabile di marxismo come Amartya Sen. A questo stesso proposito ci chiediamo come mai, in tanto parlare “antagonistico” di “globalizzazione”, non si senta il bisogno -quasi si trattasse di vicende di un altro pianeta – di occuparsi anche della quotidiana violenza perpetrata dal governo israeliano sui palestinesi o della mora dei familiari dei condannati a morte in Turchia (per tacere dell’assordante silenzio che avvolge le sorti di “Apo” Ocalan).
Riteniamo sbagliato trascurare le connessioni tra dominio economico e dominio politico-militare (con al centro la lotta per il controllo delle risorse idriche ed energetiche del pianeta). Riteniamo scorretto perdere di vista la centralità dello sfruttamento del lavoro vivo, vera chiave di volta di una mondializzazione che scarica su migranti e nuovi schiavi il peso della generale deregolamentazione dei rapporti di lavoro (a questo riguardo consideriamo assolutamente prioritaria la riuscita della manifestazione di oggi a Genova, dove a dire la verità sulle condizioni di vita e di lavoro generate dalla mondializzazione capitalistica sarà appunto la componente del nuovo proletariato costituita dai migranti “extra-comunitari” presenti sul territorio italiano ed europeo). E riteniamo altresì erroneo sganciare la discussione sugli effetti generalmente regressivi e distruttivi prodotti dalla mondializzazione capitalistica sull’ambiente e sulla riproduzione delle forme viventi dalle cause specificamente di classe che informano di sé questo modello di sviluppo e gli attuali rapporti di forza internazionali.
Non si tratta solo di obiezioni teoriche. Il rischio che, disancorati da una prospettiva di classe, i movimenti rifluiscano inconsapevolmente su piattaforme deboli e puramente compatibiliste (la rivendicazione per un capitalismo equo, sostenibile, dal volto umano) e divergano totalmente dal movimento di classe che mette al centro il tema del lavoro.
Torniamo così allo sciopero della Fiom e al quadro politico con cui la sinistra italiana si trova a fare i conti. Ci sembra abbia pienamente ragione Claudio Sabattini nel richiamare l’attenzione sulle connessioni costitutive tra lo sciopero metalmeccanico e i movimenti anti-G8, il cui “vero significato” consiste nella critica della “oligarchia finanziaria che vuole dominare il pianeta” e, più in particolare, di “una globalizzazione dominata dagli interessi del capitalismo americano”. Per queste stesse ragioni, troviamo invece pericolosamente astratte e generiche non solo le proverbiali manifestazioni di bontà del neo-sindaco di Roma Veltroni (al quale la devastante miseria dell’Africa sembra un processo naturale senza responsabili, simile al “succedersi delle stagioni” e al “tramonto del sole”), ma anche le ripetute esternazioni di chi riduce tutto al “confronto tra un numero ristretto di multinazionali e le moltitudini del Sud del mondo che lottano per sopravvivere”.
O si lavora, sulla base di una rigorosa critica del capitalismo, per fare emergere e divenire coscienza comune la sostanziale unità delle ragioni del movimento di classe, sia che si scenda in piazza contro i Grandi della Terra, sia che ci si muova contro il padronato italiano, da anni rassegnato alla perdita della propria autonomia produttiva per svolgere funzioni di complemento nei confronti dei sistemi produttivi di altri paesi; o, in caso contrario, si rischia di avallare, a dispetto delle parole d’ordine altisonanti, la ultradecennale deriva moderata della sinistra, il suo diligente allinearsi allo stato di cose dato appagandosi di apporre trascurabili correzioni o attenuazioni alla tendenza principale.
Ci sono piccoli segnali di speranza, non ultima la disobbedienza di ottanta parlamentari all’indicazione consociativa dell’Ulivo rispetto alle proposte del governo in tema di G-8. Ma non mancano nemmeno chiari segni di chiusura nei confronti dei nuovi fermenti di conflitto: e tale consideriamo anche la netta avversione di Trentin all’ipotesi di ricostituzione della “corrente comunista della Cgil”, in passato sciolta dallo stesso Trentin che, nonostante tutto, tale scelta rivendica. Come si diceva, il banco di prova sarà l’autunno. Sarà allora che avranno modo di manifestarsi l’esistenza e la vitalità di quel “popolo di sinistra” che scese in piazza in un lontano 25 aprile contro il neonato governo Berlusconi e che in questi giorni tornato a riunirsi sotto le bandiere rosse del sindacato dei meccanici. A parlare saranno allora le cose, i fatti e le decisioni concrete, la concreta volontà di sostenere le ragioni del conflitto di classe che mostra di volere e potere ripartire.