Viviamo giorni di trattenuta euforia. Il voto regionale ci ha regalato una grande gioia e ha riacceso la speranza. Ma sappiamo pure che non è ancora detta l’ultima parola. Certo il governo Berlusconi è alle corde. La Casa delle Libertà è in frantumi. E l’uomo che sino a ieri incarnava lo spirito vincente della destra appare svuotato di qualsiasi risorsa: un povero vecchio mal truccato, che ride al vento e lui soltanto sa il perché. Osservandolo oggi, ci si chiede come sia potuto accadere che decine di milioni di italiani abbiano prestato fede a certe promesse, a certe rappresentazioni.
Qui sta il punto. La vittoria elettorale non deve farci dimenticare che Berlusconi e i suoi mantengono il consenso di moltissimi e dispongono ancora di leve potenti, manovrando le quali potrebbero provocare nuovi immensi guasti. Bisogna dunque stare attenti. E bisogna anche agire, in modo da incalzare la destra e da impedirle di riorganizzare le proprie forze. Non basta il voto: occorre che la mobilitazione democratica continui; che le lotte, come è avvenuto l’altroieri con lo sciopero dei meccanici, si dispieghino; che i movimenti tornino a occupare la scena. È necessario che altri successi si aggiungano al terremoto elettorale. Se questo avverrà, l’effetto potrebbe essere inarrestabile: una valanga capace di travolgere quanto ancora rimane in mano alla destra.
Per avere piena coscienza della posta in gioco bisognerebbe ripercorrere analiticamente questi ultimi quattro anni, con l’attenzione pensosa di una via crucis. E si dovrebbe sostare a lungo già sulla prima stazione, per ricordare come avvenne che Berlusconi sia tornato al governo con i bilanci delle imprese di famiglia in ordine e le mani libere dal conflitto di interessi.
Questa storia andrà scritta, prima o poi. Ma sin d’ora urge dire con forza almeno una cosa. Ammesso (e non concesso) che ogni pericolo sia ormai scongiurato, i rischi che il Paese ha corso sono enormi. Il Paese, la sua democrazia. Gli esempi potrebbero moltiplicarsi, cominciando dai giorni cileni di Genova, appena un mese dopo l’inizio della legislatura; dai proclami intimidatori a reti unificate; dalla sistematica umiliazione del Parlamento e della magistratura.
Su due elementi, in particolare, è opportuno richiamare l’attenzione in questi giorni di aprile, e sul loro significativo intreccio.
Il primo è il continuo attacco che questo governo ha sferrato contro la Resistenza. Si pensi all’ostentato oltraggio di un presidente del Consiglio che diserta le celebrazioni della Liberazione; alle parole in libertà di un presidente del Senato sull’esigenza di “smitizzare” la guerra partigiana; al sabotaggio finanziario dell’Anpi e degli Istituti per la storia del Movimento di liberazione; al progetto di attribuire ai repubblichini lo statuto di cobelligeranti; al revisionismo applicato alle vicende istriane, al fine di avvalorare indecenti equazioni tra le foibe e i campi di sterminio; alle ricorrenti proposte di cancellare il 25 aprile.
Non si è trattato – come a taluni pare – di una offensiva puramente ideologica, ma di una operazione politica, dove la diffamazione di un capitolo cruciale della nostra storia e la delegittimazione dei suoi protagonisti hanno uno scopo preciso: dare un segnale di riscossa alla parte peggiore di questo Paese, a quei poteri più o meno occulti, a quei settori deviati delle istituzioni, a quei ceti e soggetti che mal tollerano le regole del gioco democratico e da sempre attendono occasioni di rivincita. Calpestare l’immagine della Resistenza significa dire loro che la partita non è ancora finita, che la “parentesi repubblicana” può ancora essere chiusa, che l’Italia può tornare un Paese “ordinato”, come direbbe il Venerabile Maestro Licio Gelli.
Ma l’insulto alla Resistenza non è un fatto isolato, è parte di un più vasto disegno che occorre riconoscere nella sua organicità. Di pari passo con l’attacco alla storia e ai valori dell’antifascismo è corsa l’aggressione contro il suo lascito materiale, fatto in primo luogo di leggi e di istituzioni. Da un lato si è infangato, dall’altro si prova a demolire. Quanto il gioco si sia fatto pesante lo dice il secondo elemento sul quale è bene oggi puntare l’attenzione.
L’on. Berlusconi ha assunto la guerra contro la Costituzione come una missione da compiere a ogni costo. Dopo averle giurato fedeltà, l’ha dapprima ingiuriata. Quindi ha scatenato l’artiglieria pesante dei suoi “riformatori”, che hanno sfigurato la Seconda parte del testo. Il risultato è noto. Se dovesse entrare in vigore la nuova Costituzione voluta dalla destra, questo Paese non sarebbe più una democrazia parlamentare, ma – ad essere molto generosi – un regime fondato sul potere personale di un capo politico. In realtà, ci ritroveremmo sudditi di un individuo eletto plebiscitariamente e munito di poteri pressoché assoluti. L’Italia diverrebbe, come è stato detto, un Paese senza Costituzione.
Probabilmente ciò non accadrà. Gli sviluppi politici di queste settimane lasciano ben sperare circa la possibilità di respingere questa “riforma”. Ma la portata dei rischi che la democrazia italiana ha corso dev’essere chiara a tutti, e di questa esperienza occorre far tesoro. Tanto più che – lo si diceva in apertura – non tutti i pericoli stanno alle nostre spalle.
Che fare, dunque? Bisogna, a nostro giudizio, che la voce di quanti hanno parlato il 3 e il 4 aprile per dire che la destra e il suo capo debbono sgombrare il campo continui a farsi sentire con grande forza in questa delicata fase della vita politica italiana. Bisogna che i cittadini che hanno a cuore le sorti della democrazia nata dalla Resistenza vigilino e si mobilitino, per impedire che l’on. Berlusconi realizzi le proprie “riforme” sovversive (non c’è soltanto la Costituzione, ma anche l’ordinamento giudiziario e la par condicio e la legge elettorale).
A questo scopo un primo importante appuntamento già si profila. Tra pochi giorni è il 25 aprile, e quest’anno cade un anniversario molto significativo: il sessantesimo della Liberazione. Perché, dunque, non promuovere in quel giorno una grande manifestazione nazionale, per dire, nello stesso momento, che la Resistenza è ancora una parte ben viva dell’identità di questo Paese e che la Costituzione del ’48, in cui la Resistenza dichiara le proprie ragioni, non si tocca? Per dirlo con la forza necessaria, non soltanto a un governo ormai privo di legittimità politica, ma anche alle forze politiche che vorremmo lo sostituissero sin da subito alla guida del Paese.
L’idea è stata lanciata qualche giorno fa, anche su queste pagine, da alcune prestigiose figure della cultura e della politica. Subito le firme a sostegno della proposta sono affluite a centinaia, a migliaia, segno di una preoccupazione diffusa e di una volontà comune. Non ci resta che sperare che l’idea divenga realtà, e che il 25 di questo mese torni – d’ora in avanti – quella grande festa di popolo e di libertà che fu nella lontana primavera del ’45.