Questa terribile disavventura ha ucciso un iracheno su 40

In molti si rifiutarono di credere al rapporto di Lancet nel 2004 da parte di un gruppo di specialisti in salute pubblica americani e iracheni che avevano fatto un indagine casa per casa in tutto il Paese e scoperto che dall’invasione da parte della coalizione nel marzo 2003 c’erano state 100,000 morti irachene in eccesso. Diversi ministri vennero schierati per distruggere la credibilità dei risultati e, in gran parte, ci riuscirono. Ma adesso le loro negazioni sono tornate a perseguitarli, perché le cifre dall’Iraq sono state confermate da un ulteriore studio.

Lo stesso team della Johns Hopkins University ha lavorato assieme ad alcuni medici iracheni per visitare oltre 1.800 case in Iraq, scelte in modo casuale per essere sicuri che nessun giudizio preconcetto potesse insinuarsi nei loro calcoli.

Essi hanno identificato più di 12.000 membri di famiglie e rintracciato quelli che erano morti in un intervallo che copriva sia il periodo precedente all’invasione che quello successivo. Gli intervistatori iracheni parlavano correntemente l’inglese nonché l’arabo, ed erano tutti ben addestrati per raccogliere le informazioni che stavano cercando. Hanno chiesto il permesso a ogni famiglia di utilizzare i dati che volevano. E hanno cercato in tutti i modi di trovare i certificati di morte in più di quattro casi su cinque per essere sicuri di avere un controllo incrociato sui numeri e le cause di morte forniti loro dai familiari.

Tutti questi controlli significano che le 650.000 vittime irachene in eccesso dall’invasione da essi riferiti costituiscono la stima più affidabile che abbiamo sulle morti civili. La maggior parte di queste morti sono state di uomini di età compresa tra i 15 e i 44 anni.

Non solo abbiamo una comprensione migliore del prezzo che la nostra invasione ha avuto sul Paese, ma capiamo anche meglio in che modo queste morti si sono verificate. Prima dell’invasione, solo una proporzione assai piccola delle morti era dovuta alla violenza. Ma dall’invasione più di metà di tutte le morti sono state dovute a cause violente. E’ la nostra occupazione e il fatto che continuiamo a restare in Iraq che stanno alimentando questa violenza. Le affermazioni secondo le quali la minaccia terroristica c’era sempre stata vengono semplicemente confutate da questi risultati.

Anche la natura di queste cause è cambiata. All’inizio, nel periodo successivo all’invasione, le morti venivano aggravate dai bombardamenti aerei. Ora però le ferite da arma da fuoco e le autobomba stanno avendo un effetto assai maggiore. Lungi dal fatto che la nostra presenza in Iraq stia stabilizzando il caos o alleviando il ritmo con cui stanno aumentando le vittime, sembra che stiamo peggiorando la situazione. Ogni anno dopo l’invasione, i tassi di mortalità dovuti alla violenza sono aumentati.

La cifra totale di 650.000 è veramente sbalorditiva. Essa rappresenta il 2,5% dell’intera popolazione irachena. Nel 2004 Lancet venne criticata per aver pubblicato una cifra che sembrava avere un grado elevato di incertezza. La stima migliore allora era di 98.000 morti. Ma l’incertezza significava che essa avrebbe potuto avere 8.000 come limite inferiore o 194.000 come limite superiore.

Anche nell’ultimo studio c’è un ampio grado di incertezza, ma anche la cifra più bassa possibile da esso fornita per il numero delle morti – 400.000 – rende chiaro quanto sia stato terribile il nostro intervento in Iraq. La cifra più alta possibile è di oltre 900.000. Guardando questi numeri, dobbiamo ammettere che abbiamo creato un disastro umanitario di proporzioni senza precedenti per una politica estera che avrebbe dovuto proteggere le popolazioni civili, non far loro subire un danno sempre maggiore.

Perché questa stima di Lancet è tanto più alta delle cifre diffuse dal Presidente Bush o dal sito di Iraq Body Count? Essi danno il numero delle vittime nelle decine di migliaia, non nelle centinaia di migliaia. Per essere giusti, Iraq Body Count non afferma di pubblicare numeri assoluti accurati delle morti. Piuttosto, le loro cifre sono molto utili per misurare le tendenze. Ma la ragione della discrepanza tra queste stime più basse e la nuova cifra di 650.000 morti sta nel modo in cui essa viene cercata. La sorveglianza passiva, il metodo più comune utilizzato per stimare i numeri delle vittime civili, fornirà sempre una stima per difetto del numero totale delle vittime. Lo sappiamo dalle guerre e dalle zone di conflitto passate, dove le stime sono state troppo basse di un fattore di 10 o persino di 20.

Solo quando si esce e si bussa alla porta delle famiglie, cercando le morti in modo attivo, si inizia ad avvicinarsi al numero corretto. Questo metodo adesso è ampiamente testato. Esso è stato la base delle stime sulla mortalità in zone di guerra come il Darfur e il Congo. Cosa interessante, quando riferiamo le cifre da questi paesi i politici non le contestano. Aggrottano la fronte, annuiscono con la testa, e convengono che la situazione è grave e intollerabile. La comunità internazionale deve agire, dicono. Quando si tratta dell’Iraq la storia è diversa. Aspettatevi che l’attuale governo mobiliti tutti i suoi sforzi per erodere la credibilità del lavoro fatto da questo team americano e iracheno. Aspettatevi che il governo critichi Lancet per essere troppo politica. Aspettatevi che il governo faccia tutto il possibile per ignorare questa storia e lavarsi le mani delle sue responsabilità di prendere sul serio queste ultime conclusioni.

Ma se stessimo parlando del rischio del fumo per la popolazione, e avessimo pubblicato ricerche che dimostrano l’effetto del tabacco sulla mortalità, pochi metterebbero in discussione il messaggio o l’importanza che gli scienziati e le riviste mediche si impegnassero attivamente in un dibattito pubblico. Per l’Iraq, ora la violenza è la priorità in materia di salute pubblica. E’ un argomento appropriato per la scienza ed è un argomento appropriato perché una rivista medica lo commenti.

Quindi, qual è la conclusione giusta di questo lavoro? In che modo quest’ultima ricerca dovrebbe informare la politica pubblica? Innanzitutto, l’Iraq è una emergenza umanitaria inequivocabile. I civili stanno venendo danneggiati dalla nostra presenza in Iraq, non aiutati. Questo dovrebbe costringerci a fermarci e a chiederci cosa stiamo facendo e perché. Non c’è da vergognarsi a dire che abbiamo sbagliato politica. Inoltre, abbiamo un obbligo legale in base alle Convenzioni di Ginevra di fare tutto il possibile per proteggere le popolazioni civili. Queste conclusioni mostrano non solo che non stiamo rispettando quest’obbligo legale, ma anche che lo stiamo sovvertendo progressivamente anno dopo anno.

E, infine, possiamo dire in modo veritiero che la nostra politica estera – basata com’è sui concetti del 19° secolo dello stato-nazione – ha perduto da molto tempo la sua validità. Abbiamo bisogno di un nuovo insieme di principi per governare la nostra diplomazia e la nostra strategia militare – principi che siano basati sull’idea della sicurezza umana e non su quella della sicurezza nazionale, sulla salute e il benessere e non sull’egoismo economico e sull’ambizione territoriale.

La speranza migliore che possiamo avere dalla nostra terribile disavventura in Iraq è che crescerà un nuovo movimento politico e sociale per ribaltare questa politica di umiliazione. Siamo un’unica famiglia umana. Comportiamoci di conseguenza.

Richard Horton è il direttore di Lancet

(Traduzione di Ornella Sangiovanni)